lunedì 30 dicembre 2013

Festeggiare il Nuovo Anno, rinnovare la nostra vita








L'unico dell'anno vecchio o il primo dell'anno nuovo?
 
 
 

Per David Chadwick: “Il punto dei discorsi di Suzuki non era di dire la verità come egli la vedeva, ma di liberare le menti dagli ostacoli, così che potessero includere le contraddizioni.”

Restare chiusi nella propria piccola mente, per quanto benintenzionata e fedele all’ortodossia buddista, alla correttezza, alla coerenza morale o al senso comune serve essenzialmente all’autorassicurazione, e può essere dannoso e controproducente. “The way that helps will not be the same. It changes according to the situation.” Quel che è di aiuto non è sempre lo stesso, cambia in accordo alla situazione. La flessibilità è indispensabile per rendersi utili e d’aiuto alla società.

Il 31 dicembre 1945, durante il periodo dell’occupazione americana, il tempio di Shunryu Suzuki, Rinso-in, ferveva di entusiasmo e preparativi per festeggiare l’Anno Nuovo.

“La gente era ancora depressa a causa della guerra, ma Shunryu sentiva che questa settimana di festa e di rivitalizzazione poteva aiutarli a sollevarsi” racconta Chadwick.  “In qualche modo -diceva Suzuki-  inganniamo noi stessi e ci godiamo l’ultimo giorno dell’anno. Questo si basa sull’approccio buddista alla vita. Momento dopo momento dobbiamo rinnovare la nostra vita, non dovremmo restare attaccati alle vecchie idee di cos’è la vita o qual’è la nostra concezione della vita. Specialmente a fine anno dovremmo  rinnovare completamente i nostri sentimenti e ripulire completamente anche le nostre automobili. Se restiamo sempre attaccati a vecchie idee e ripetiamo sempre la stessa cosa, allora siamo prigionieri nel nostro vecchio modo di vita. Qualche occasione di effervescenza e di festa è necessaria per darci coraggio.”

L’auto-inganno e  il godimento sono talvolta necessari e utili per non soccombere alle vecchie idee e alla ripetizione. La priorità va al rinnovamento completo, al non “restare prigionieri nel nostro vecchio modo di vita”. Occorre  non restare prigionieri di niente: non del patriottismo e del nazionalismo né del buddhismo, non della “old time religion” né della sua cancellazione in nome di altri ‘ismi’, non della crisi nè del superamento della crisi, non di come eravamo nè di come potremmo essere.

"Dovremmo capire le cose non da un punto di vista soltanto. Chiamiamo qualcuno che capisce le cose esclusivamente da un lato tambankan. Una mente attaccata alle vecchie idee e alla ripetizione e chiusa alle contraddizioni è –diceva Suzuki- la mente di un ‘tambankan’.”

Tanti auguri di rinnovare la nostra vita, includere le contraddizioni,  festeggiare l’Anno nuovo.  


sabato 21 dicembre 2013

Natale, ritorno a casa







Il primo kaki dell'Anno Nuovo o l'ultimo dell'Anno Vecchio?



Natale è ritorno a casa. Il Natale è festa del ritorno a casa. Anche i Re Magi, sempre agitati, sempre alla ricerca, trovano "in mezzo al nero luccicare delle tenebre" un punto fermo di luce e di calore. Quando ritorniamo a casa, qualcosa richiama la nostra attenzione; quando ne fuggiamo, vogliamo fuggire e allontanarci il più possibile e non prestiamo attenzione se non al contachilometri e al tempo  che ci separa dalla meta. Quanto manca? Quanto ancora? Cerchiamo la felicità e la liberazione nello spazio e nel tempo, mentre quando ritorniamo a casa la liberazione è frutto di un’attenzione aperta e si realizza nel momento presente- in cui, come dice in “La ricerca della primavera” il poeta Tai-i della dinastia Sung, dopo aver vagato inutilmente lontano, ritornando a casa prendi “in mano un rametto di susino in fiore” e trovi la primavera- ed è momento gravido di ispirazione e di incoraggiamento. In quel momento ci avviciniamo con fiducia alla vita e ci scrolliamo di dosso l’agitazione e l’accidia, i frutti malati dell’indulgenza, in cui tante volte ci siamo attardati.

Dobbiamo intenderci sul che cosa significhi ‘ritorno a casa’. E’ il ritorno al qui e ora, al momento presente, che spesso si accompagna al respiro ed è sempre segnalato da una sensazione di sollievo e di rilassamento, qualcosa che impariamo a riconoscere e per cui ci sentiamo grati.

Tutte le volte -e sono tantissime, ma non ce ne accorgiamo, perché diamo la cosa per scontata- ci distacchiamo dal qui e ora, ci allontaniamo dal momento presente, perché è triste, o noioso, o freddo e piovoso, o insoddisfacente, oppure stiamo inseguendo una cometa luminosa in cerca della felicità, della liberazione o della primavera: tutte quelle volte noi forziamo la nostra esperienza, e quello che ancora non sappiamo, nei “binari morti” del vecchio regime,  di quello che Krishnamurti chiama "già conosciuto".

Ricordare il Natale, con tenerezza, con gioia: tanti affettuosi auguri di “ritorno a casa”.




giovedì 19 dicembre 2013

Il lavoro dell'attenzione per Malebranche






Malebranche che riconosce nell’attenzione « la preghiera naturale dell’anima» scrive:
 
«In effetti questo lavoro dell’attenzione è dapprima grande, e la ricompensa molto mediocre; e d’altra parte ci si sente a ogni momento sollecitati, incalzati, agitati dall’immaginazione e dalle passioni, di cui è dolce seguire l’ispirazione. Tuttavia è una necessità, bisogna invocare la Ragione per esserne illuminati. Non c’è nessun altra via per ottenere la luce e l’intelligenza se non il lavoro dell’attenzione. »
Malebranche, Trattato sulla morale







 

venerdì 13 dicembre 2013

Un semplice koto




A Roma nei mattini chiari di questa fine stagione, una luce calma si posa sui resti del Palatino, l’arco di Costantino, la basilica di Massenzio, e prima dell’imbrunire mentre scendi dal Viale del Parco del Celio resta avvolta alla Basilica dei Santi Giovanni e Paolo con i cipressi e i pini che la coronano.

Spesso però i nostri passi sono distratti e non vediamo niente. Siamo appesantiti da una sola magnetica misura: quello che ho perso, quello che ho guadagnato, come ho perso, come ho guadagnato..

Lo splendore di questi ultimi giorni d'autunno mi ha ricordato la poesia “Un semplice koto” del poeta giapponese Jukichi Yagi (1898-1927), di cui abbiamo su questo blog già pubblicato la poesia “Quiete”-il koto è uno strumento musicale a corda della famiglia della cetra:

 

Un semplice koto se lo deponi
 
in questo splendore

comincerà a suonare piano

alla bellezza dell’autunno incapace

                                        a resistere.

 
 
 
 
 
 
 

venerdì 6 dicembre 2013

Amarezza e amore di Gianfranco





Gianfranco Palmery, in un certo numero di giorni, prima di lasciare questo mondo, ha completato la creazione di un’isola chiamata Amarezza, questa parola contiene il mare e un esito di brezza, o soprattutto una variante di ebbrezza, bensì amara, e l’isola è anche Gianfranco stesso che ci si smaschera e denuda, naturalista e natura, fisio-patologo e organismo, psicologo e psiche, letterato e opera, scenografo e scena, attore e azione, tanghero e tango, uomo vecchio e malato e vecchiaia-malattia, giardiniere e giardino.  

Sull’isola crescono molte specie di piante, erbe e fiori amari (il che ricorda il brano dello Zibaldone 4175, 4176, 4177 dall'incipit "Entrate in un giardino di piante, di erbe e di fiori", dove leggi: "non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento"): legarsi al dito le offese subite, rovistare nel risentimento, affliggersi e rinforzare i muri torti delle afflizioni, contare e ricontare le ingiustizie che ci hanno colpito, cucire e scucire le ferite, rammemorare le umiliazioni, ostentarne le reliquie, investire e capitalizzare la sofferenza…

C’è  l’amarezza-farmaco: oh amarezza / tu curi il cuore / lo liberi del mondo, il triste morbo che ci consuma e affanna..
Ma nel farmaco si cela una pozione velenosa che illude e inganna: la salvezza / non può venire da un veleno puro / distillato mortale della mente / messa alle strette dal mondo che fa muro / e la umilia in una lunga contesa

L’amarezza ha natura seduttiva e cangiante, mentre da vivo giochi e godi a fare il morto con il mondo, ecco che ti ritrovi negli inferi per accorgerti che sei davvero morto: se sentirti / un tempo morto al mondo / ti piaceva, ora è il mondo / che ti considera morto..

E persino le dolcezze pasquali, di anni lontani, sanno di amaro mentre le si gusta, amareggiate da una amara nostalgia…

L’amarezza pur copiosa, solidifica rapidissimamente; come lava bollente di rancore si converte in un baleno in materiale da costruzione resistente e tossico. E l’isola dell’amarezza ambisce a farsi continente, in sé perfetto, ma fatalmente decade e si rinchiude nel sogno di qualcuno che la liberi da se stessa o la faccia finita.

Simultaneamente l’amarezza è grande mare, oceano allungato tra i massicci dell’Io, e quelle isolette sparse che sono gli io-pigmei, gli io degli altri, quali li incontriamo andando a caccia o li percepiamo, insignificanti e queruli, nel corso dei peripli e delle processioni che ripetiamo identici intorno a noi stessi. E ci avvediamo, prodigio di poesia e di consapevolezza, come sia tanto più facile annaspare e naufragare amaramente in questo mare amaro quanto meno ci si lasci bagnare dalle acque sorgive dell’accettazione e del rilassamento, nei cui riguardi si nutre diffidenza sapida di fiele e di bile, quasi che abbandonarci e affidarci al fluire di una corrente festiva fosse un tradimento di quella categorica serietà e della arcigna vigilanza che occorre esercitare senza posa nei confronti della vita.
 
Gianfranco invita a toccare con mano la ferita aperta e a vedere che l'amarezza è morte, mortifera, morte che respira e che avvelena con il suo fiato, morte in vita che si incarna in colui che è amaro, senza redimere.

Vorrei tenerla tutta
racchiusa in me, mia cara, l’amarezza
che mi riempie ma a volte trabocca
e si fa stizza, ira
che t’investe: una ventata cattiva
esce dalla mia bocca
come un soffio di morte rinverdita
poiché io sono un morto che respira
a fatica e a fatica si trascina
ancora nella vita.
 
Nell’Amare-zza c’è tuttavia il contrappasso e l'impronta dell’ Amare. L’amarezza “contrappassa” un “amare” incompleto e incompiuto, e si riflette tardiva nella sorgente dell’amore, lo specchio di errori e incurie.

Amore vuole lume d’intelletto
e quell’offerta di sé
che antepone l’oggetto
amato a ogni altra mira:
non può esserci errore nel soggetto
amante poiché è amore che lo ispira -
e invece quanti errori, quante incurie
nel mio amore imperfetto
per voi tutti miei amati
mie amate, che mi fanno
sbranare dai Rimorsi e dalle Furie
e per mio duro danno
resteranno per sempre imperdonati.

Gianfranco è però capace di volgere l’amarezza in danza.  Passo, doppio passo, contro passo, svolta, risvolta, gira e volta, cadenze e battute di tango ricorrono nei suoi versi e trasmutano l’amaro e il tossico dell’amarezza in ritmo:

Solo-solo assediato da nemici
interni, esterni, eterni:
non una mano amica,
non un soccorso: l’inatteso, l’ospite
che bussa alla tua porta
di solitario sisifo e ti libera
dall’amara fatica…
 
E ancora:

O vita senza vita
che somigli a una morte senza morte,
morte sempre patita
finché la vita non chiude le porte,
così se vita in morte è morte in vita
vivo una morte che sembra infinita

Il ritmo sapiente e scorrevole delle battute e delle controbattute non cancella l’amarezza bensì l’incanta e ammalia per qualche istante, la confonde rovescia e dischiude...  E nell’accenno di apertura, nel varco si apre alla generosità.

Generosi non sempre sono i versi che declamano una generosità di maniera,  ma i versi rubati all’amarezza e all’affanno, versi che ci aiutano a capire l’amarezza e a evitarla, a non coltivarla.

Il balsamo e il farmaco di Amare-zza resta così pur sempre Amore, dono di sé, del proprio tempo, della propria voce, del proprio ritmo, della propria integrità, gocce benefiche di una amara piega che preparano la docilità e la mansuetudine.

(Si veda per i versi riportati in questo ricordo di Gianfranco: Amarezze - Madrigali e altre maniere amare di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, 2012)

 

venerdì 29 novembre 2013

Lettera dalla generosità


 

Il rimedio alla solitudine e alla mestizia, il farmaco creato in proprio che cura e guarisce, il ritrovato alchemico che non presenta controindicazioni, ha due componenti. Il primo è la generosità, il secondo è il coraggio - poiché del resto la generosità è una forma di coraggio, di apertura ‘nonostante’ tutto, di disponibilità non necessariamente e non subito contraccambiata, di fiducia verso un frutto che non è ancora maturo nè conosciuto, possiamo dire che la generosità già contiene in sé una buona dose di coraggio.

Offrire quello che si ha, quello che si può, quello che si è esperienziato direttamente, essere generosi di attenzione, di ascolto, di presenza, di tempo, di sostegno, di contentezza, di buonumore, di collaborazione è essere in relazione. Ecco perché la prima forma di generosità è la benevolenza amorevole per gli altri e per se stessi, non infierendo su di sé con i sensi colpa e i rimpianti, che ci amareggiano e ci isolano e dividono dagli altri.

Se riflettiamo sui nostri stessi timidi passi e stentate esperienze nell’ ‘altro’ mondo della generosità, capiamo come questa pratica rappresenti una conversione rispetto a condizionamenti e comportamenti che fin da piccoli abbiamo considerato, e tuttora consideriamo, ‘naturali’ e che sono una delle cause determinanti del nostro isolamento: la tendenza a vedere tutto attraverso il prisma del proprio ‘io’, per cui ‘naturalmente’ ci aspettiamo che il ‘mio’ sia il centro del mondo, e che anche persone depresse, affaticate, afflitte o malate si mettano al servizio nostro, delle nostre aspettative e comodità, dai genitori ai parenti, figli, amici, maestri, studenti, conoscenti…

La generosità ha la precedenza assoluta su altre medicine e palliativi, quali l’analisi riguardo alle origini della solitudine che soffriamo, il cercare di svagarsi per non pensarci troppo o anche la ricerca di compagnia -infatti la ricerca di compagnia che non si accompagna alla generosità e al discernimento non può che essere ‘a termine’, e il conforto che arreca è dipendente dalla presenza fisica di “altri”.

La generosità, anche se inizialmente faticosa, ha un dinamismo che dà sollievo e incoraggia nel cammino. Inoltre aiuta a non impantanarsi in quelle ricerche meramente intellettuali o concettuali che declinano spesso in circolo vizioso e senza buonuscita.
 


 
 

venerdì 22 novembre 2013

Lettera della solitudine (o dell'accordatore di pianoforti)





Mentre parlavo con una mia amica della solitudine mi sono chiesta chissà se anche dopo molti anni di pratica capita di sentirsi soli? Sai questa cosa del sentirsi a casa quando ci si siede in meditazione mi fa pensare al fatto che a volte nonostante tutto mi capita di sentirmi sola e non dipende né da quanta gente c'è intorno a me né da quanti amici abbia né da quanto possa compensarmi l'amore dei miei cari. E’ una sensazione ancestrale di solitudine e mi chiedo, perché la si prova? E’ un senso di incolmabile vuoto interiore che sento a volte anche sedendo in meditazione che però non ha modo di essere o meglio: se mi sento a casa quando medito o quando respiro profondamente in silenzio perché mi accade questo sentire interiore? Ti capita mai o ti è capitato? 

 


Talvolta possiamo avere aspettative e ideali di pienezza che non reggono alla prova della vita quotidiana che non manca di ostacoli, dissesti, incertezze.

Col passare degli anni, per parte mia, sono venuto via via apprezzando le avversità, gli scombinamenti, le buche nella strada, ho scoperto che hanno l’effetto di rendermi sobrio, di irrobustirmi, di farmi guardare per terra,  dove metto i piedi, di calmare i picchi di euforia e moderare gli idealismi, e anche di rendermi più disponibile agli altri ed equanime verso quello che viene. Mi consentono di nutrire meno illusioni e di essere più accogliente verso la vita così com’è. Mi sono reso conto che la vita umana è così, ci sono dei momenti in cui ci sentiamo soli, ciascuno di noi ha questa esperienza, ed è così.

Non credo alla possibilità che l'esperienza dell’uomo possa essere priva di momenti di solitudine, di smagliature, di disorientamento. In me sono venute meno certe riserve e pretese nei confronti della vita e nei confronti degli altri.

Nello stesso tempo quando sono tutt’uno con quello che faccio, quando l’attenzione non si distacca dall’azione, qualunque essa sia, allora non mi sento solo. Se sono attento, consapevole, nell’organismo corpo-mente, quando sono presente, sia nella meditazione seduta sia nella varie occasioni della vita quotidiana, non mi sento attaccato dalla solitudine, so di essere solo ma non mi sento isolato, abbandonato o reietto. Mi pare allora che, con tutte le sue solitudini e le sue sofferenze, la vita umana possa essere una buona vita e che offra tante occasioni per renderla apprezzabile.

Ma non so se parliamo delle stesse cose. Può darsi che abbiamo bisogno reciprocamente di capire meglio quello che intendiamo.

Qualche giorno addietro ho fatto una passeggiata con Dave Thomas, un amico, accordatore di pianoforti, che è venuto a trovarmi da Exeter, nel Devon, Sud-Ovest dell’Inghilterra, ci siamo conosciuti più di venti anni fa, frequentando John Garrie che è stato maestro di entrambi, gli ho citato la tua lettera e mi ha detto due cose.

La prima è che anche lui, come tutti, si sente solo talvolta, e che invecchiando siamo più esposti alla solitudine.

La seconda è che lui distinguerebbe tra "aloness", l'essere soli, termine che può esprimere anche una maturazione personale, cioè il riconoscere e il poter tollerare che si è di fatto soli in certi momenti e situazioni, da "loneliness", il sentirsi soli, il sentirsi isolati, o addirittura abbandonati.

Ma, al di là dei concetti che hanno una funzione indicativa, per quanto mi riguarda trovo che la pratica dell’attenzione mi ha aiutato a distinguere tra la realtà e gli echi (riverberi, ventate, e contagi di solitudine) e anche a tollerare e apprezzare quell'essere soli che è una dimensione fisiologica e formativa della vita umana. E, in un certo senso, a praticare come... un accordatore di pianoforte, che accorda i pianoforti in rapporto al loro stato attuale di conservazione e d'uso, e operando al meglio con i mezzi abili che conosce e di cui dispone.
 
 
 
 

lunedì 18 novembre 2013

Alla tristezza (2)




Il poema di Neruda si apre con una sentita invocazione:
Tristezza, ho bisogno
della tua ala nera,
c’è troppo
sole, miele, sorrisi, topazio, luce rotonda…
L’ “ala nera” di cui il poeta sente di aver bisogno forse aprirà la sua vita a una condizione non dominata dal “troppo” e potrà riportarlo alla pioggia, alla terra, al tronco spezzato nell’estuario, alla luce del lume che si spegne quando la paraffina finisce, alle cose così come sono, che hanno un inizio e una fine.
Neruda ricorda se stesso
alla finestra che guardavo ciò che non era,
ciò che non succedeva
e rimpiange
quella luce nera.
E chiude con un’altra invocazione, una preghiera:
toglimi luce e lascia
che mi senta sperduto e miserabile
e tremi tra le fibre del crepuscolo
Una chiusa che ribadisce il bisogno di essere fuori dal "troppo", di potersi sentire, finalmente!, anche sperduto e miserabile, e tremare, come fibra tra le fibre.

La felicità non ci viene dal "troppo" o dal rifiuto del "poco", né dalla ricerca di gratificazioni.
Possiamo accumulare successi, piaceri, fortune, sensazioni di sicurezza proprie dell’ideologia, e soddisfazioni che arrivano dal rispecchiamento reciproco dei seguaci con il capo e dei fan con la star o del guru con i suoi adepti.
Sono colpito dai versi del poeta cileno che ricordano i giorni in cui guardiamo dalla finestra “ciò che non era, ciò che non succedeva”.
E questo “non essere” quello che sarebbe diventato, questo “non succedere” quel che desideravamo, lo sentiamo semplice e aperto.
Una volta un tale sentimento veniva irriso come non volersi sporcare le mani o voler restare innocenti.
E il verso può essere anche letto come rimpianto del tempo in cui “eravamo poveri e belli”.
Ma forse la poesia ri-guarda la tendenza che abbiamo a ubriacarci di illusioni, a rimpinzarci di questo e di quello, a rifugiarci nell’acquisizione di pseudo-certezze, finché ci risvegliamo e vediamo che l’indulgenza, il “troppo” di topazio e di miele, di pienezza e di luci, ci tiene lontani dalla nostra stessa vita e toglie qualcosa alla spaziosità e alla libertà di quello che è così com’è.
 
 
 
 
 

sabato 16 novembre 2013

Alla tristezza (1)




Tristezza, ho bisogno
della tua ala nera,
c’è troppo sole, troppo miele nel topazio,
ogni raggio sorride
sui prati
e tutto è luce rotonda intorno a me
e tutto, in alto, è come un’ape elettrica.

Perciò
la tua ala nera
dammi,
sorella tristezza:
ho bisogno che si estingua qualche volta
lo zaffiro e che cada
l’obliquo rampicante della pioggia,
il pianto della terra:
voglio
quel tronco spezzato nell’estuario,
la vasta casa buia
e mia madre
che cerca
paraffina
per riempire il lume
finché la luce
non esalava l’ultimo respiro.

La notte era lenta a venire.
Il giorno scivolava
verso il suo cimitero provinciale
e fra il pane e l’ombra
ricordo me stesso
alla finestra che guardavo ciò che non era,
ciò che non succedeva,
e un’ala nera d’acqua che calava
su quel cuore che lì forse
ho scordato per sempre, alla finestra.
Ora, rimpiango
quella luce nera.

Dammi il tuo lento sangue,
pioggia
fredda,
dammi il tuo volo attonito!
Al mio petto
rendi la chiave
della porta chiusa,
distrutta.
Per un minuto, per
una breve vita,
toglimi luce e lascia
che mi senta sperduto e miserabile,
che tremi tra le fibre
del crepuscolo,
che riceva nell’anima
le mani
tremebonde
della
pioggia.

Pablo Neruda


Questa poesia di Neruda me l'ha fatta conoscere Francesco Pieroni, che a un seminario esperienziale sulla poesia come espressione e cura, l'ha presentata con queste parole:
 
“… quasi per fuggire dal mondo troppo brillante attorno a lui, Neruda ritorna a pensare alla sua infanzia, ricordandone l’insicurezza e l’amarezza, e quando sperava in un futuro migliore, un futuro che è arrivato pieno di successi e di amore, ma che non ha portato lo stesso la vera felicità!
Ho trovato questa poesia di Neruda in una piccola, vecchia raccolta, e ne sono rimasto profondamente colpito, perché mi pare molto lontana dalle sue classiche poesie delicate, piene d’amore e di speranza. “Alla tristezza” è una poesia molto inquietante, che racconta un Neruda in crisi esistenziale, un Neruda che mette in discussione tutto ciò che ha fatto. Il poeta vorrebbe quasi liberarsi di quella fastidiosa ‘ape elettrica’ che brilla sopra di lui. Quell’illusione ipocrita che, tra l’altro, si è creato lui stesso.”



sabato 9 novembre 2013

Lettera scritta da un "tambankan"



 
I saggi incoraggiano a non guardare la realtà da un solo punto di vista esclusivo, quale che sia, il padre, il figlio, il maestro, lo studente, il padrone, il lavoratore dipendente, il giustiziere, la vittima, il cristiano, il buddista, il ribelle, il sottomesso, il prodigo, il tirchio, il consumista, l'asceta e così via.
Ma anche quando pensiamo d'essere d'accordo sul diritto all'esistenza di altri punti di vista, spesso il nostro accordo è meramente intellettuale, o strumentale.
Quello che ci manca è proprio l'esperienza sentita dell'accettare il punto di vista altrui, specie nella vita quotidiana in materie che coinvolgono le nostre strategie di comportamento, la generosità, il controllo, la sicurezza, la continuità...
Non si tratta di abiurare o di buttare a mare il nostro punto di vista ma di allentare la presa esclusiva e totalizzante che ha su di noi e sul nostro sguardo.
Soltanto così potremo capire le condizioni particolari che ci hanno portato a far nostro quel punto di vista, o per meglio dire: a farci suo, a subirne il condizionamento, e potremo anche capire dall'interno le nostre inclinazioni e vulnerabilità.
In Cetriolo storto, David Chadwick ricorda che Shunryu Suzuki usava dire: "Dovremmo capire le cose non da un punto di vista soltanto. Chiamiamo  qualcuno che capisce le cose esclusivamente da un lato tambankan. Questa parola letteralmente significa "un uomo che porta una grande tavola sulla sua spalla". Poichè trasporta una grande tavola, non può vedere l'altro lato."
Ricordando questo insegnamento mettendo giù la  "grande tavola" espiro e mi sento più leggero. Espirare ha una sua importanza perchè rende fisica la percezione del cambiamento.




 




 

venerdì 1 novembre 2013

A fil di sonno


 

 

Mi chiedo se non ci voglia ancora la capacità del silenzio e ancora prima

spogliarsi nudi alla gentilezza

quella danza a fil di sonno che tutto allarga schiara di una luce sola

solitudine compresa

cantarne la gioia

placare la furbizia dell’alba

di Paola Febbraro, da Stellezze,  LietoColle,  2012

 

Paola Febbraro è nata a Marsciano, in provincia di Perugia, e ha vissuto e lavorato a Roma fino alla morte, nel maggio del 2008.
In "Fammi restare con te lavorìo del mondo" (nella raccolta del 2001, La rivoluzione è solo della terra) sono versi gioiosi e unitivi i versi di Paola che dicono, rivelatori: "porta via da me questo non fare questo credere di non stare facendo", e dunque: "non darmi queste ultime parole: rovinami tu!" Versi veri, il "credere di non stare facendo" è una falsa credenza, fondamenta dell'ignoranza e dell'isolamento dell'io nella sua prigione cognitiva, rappresentativa, concettuale, sia essa autoamministrata sia supposta nell'amministrazione sociale.
Perchè anche quando crediamo di esserne fuori o ai margini siamo nel "lavorìo del mondo", un pensiero attento partecipe, una parola attenta presente ce lo rivela, anche inaspettatamente: sei, sei con il lavorìo del mondo..
Non ci si stanca di ascoltare e di capire la poesia di Paola, con l'orecchio teso al disvelarsi di inedite estensioni del suo suono, e del proprio udito.
In "A fil di sonno" i suoni si imprimono nel cuore, con una loro qualità ispiratrice, che mette seme in solchi di cui saggiano il dissodamento e la profondità.
Invitano a esplorare “la capacità del silenzio” e “la gentilezza che tutto allarga schiara”a chi, ancor prima, si sia spogliato nudo..
"Raramente capita di incontrare tanta immediata purezza di intenzioni espressive -ha scritto Marcella Corsi di Paola- tanta aderenza al ritmo, spezzato e insieme naturale, dell’esistenza degli umani di sesso femminile, e un linguaggio poetico così capace di rendere quello che il corpo sa nella sua interezza di intuito, concretezza, intelligenza."

 





venerdì 25 ottobre 2013

Che cosa significa meditazione?










Montali, ritiro d'autunno, 18-20 ottobre 2013
(foto di Hinnerk Brockmann)


 





"Meditazione non significa produrre qualche stato mentale speciale, come uno stato di trance, uno stato di beatitudine o qualunque altro stato artificiale. Non implica l’evocare speciali esperienze, avere visioni, vedere particolari forme e colori. Meditazione significa divenire consapevoli del fatto che per un tempo inconcepibilmente lungo la nostra mente è stata prigioniera dei suoi attaccamenti alle esperienze. Significa vedere che questa condizione produce sofferenza, imprigiona la mente e stabilisce limiti artificiali ad essa. In meditazione, consentiamo alle nostre menti di rilassarsi e liberarsi da questo confino. Essere rilassati non significa lasciarsi andare fisicamente o essere disattenti. Ciò che intendiamo è un rilassamento della mente in cui sia il corpo sia la mente sono pienamente presenti e svegli.
I nostri ristretti, limitati stati mentali sono la conseguenza di azioni auto-centrate.. A causa di queste abitudini, che sono diventate compulsive, a mala pena controlliamo le nostre vite -soffriamo anche quando non vogliamo. Per molti versi siamo il giocattolo del nostro karma, con possibilità piuttosto limitate di influenzare qualcosa. Attraverso la meditazione gradualmente mettiamo via la nostra ristrettezza e compulsione mentale. Cominciamo a dissolvere le nostre tendenze e diveniamo più abili nell’influenzare il nostro futuro, fino ad essere padroni delle nostre vite con completa libertà di decisione.
In generale, siamo intrappolati in modelli reattivi di mi piace-non mi piace, lo voglio-non lo voglio. Viviamo sperando che i nostri desideri si compiano e temendo che ci capitino cose spiacevoli. I risultanti sentimenti di insoddisfazione e tutti i nostri problemi sbocciano dalla nostra mente compulsiva e non, come normalmente pensiamo, dagli altri o da pressioni esterne. Nascono da una sete inestinguibile di conferma del nostro ego e di appagamento nelle cose esterne, dal desiderio di ottenere qualcosa che non può essere ottenuto. La strenua ricerca di una felicità esterna a noi è la causa reale della nostra sofferenza.."



Lama Gendun Rinpoche, Heart Advice from a Mahamudra Master, Norbu Editions