mercoledì 30 gennaio 2013

Il vento soffia dove vuole..



 la porta della cella
 
 il muro
 
 l'alba
 

Robert Bresson aveva letto dell’evasione dal carcere di un combattente antinazista nella Francia occupata e ne fece un film trascurando tutto ciò che riteneva superfluo e che poteva distrarre dal percorso del protagonista verso la libertà. Nei titoli di testa scrisse infatti: “Questa storia è vera. Io ve la racconto com’è, senza ornamenti”.
 
Entrando in cella dopo il trasferimento dal comando tedesco e un primo sfortunato tentativo di evasione dall’auto che l'aveva trasportato in prigione, Fontaine benché malridotto e sanguinante rivolge la sua attenzione al muro, lo tasta lo batte lo esamina scrupolosamente. Poi si issa alle sbarre dell'alta finestrella per dare uno sguardo fuori e valutare le sue circostanze e scopre un cortiletto interno in cui passeggiano alcuni detenuti.  Si adopera a trasformare il cucchiaio in un attrezzo atto a smontare il pannello della porta. Ricava dalla rete della branda il filo di ferro per costruire una corda necessaria a calarsi dal tetto. La sua giornata è interamente dedita a preparare l'evasione: raccolta di informazioni, osservazione di condizioni e vincoli della vita carceraria, costruzione dei mezzi per fuggire. Neanche un momento deve essere perso e tutto quanto (nostalgie, fantasie, ricordi, rimpianti, consolazioni, elucubrazioni, sogni ad occhi aperti, ecc.) non converga qui e ora con l’intenzione, lo sforzo e la riflessione sulla liberazione, non viene evocato. Non indulgere nell’inutile e nell’inessenziale nutre il desiderio della libertà, di cui la cella del condannato a morte è divenuta un laboratorio.

Ultima inquadratura. Prima luce e primi suoni dell’alba, Fontaine, scalzo, e il suo compagno di fuga sono fuori, in strada, al di là del muro di cinta del carcere, e se ne allontanano silenziosamente a passettini accorti e svelti.

Per François Truffaut, “Un condamnè à mort” è “un film dell’ostinazione sull’ostinazione”. Perchè, ostinazione? Fontaine sa essere flessibile e adeguarsi al momento e alla situazione imprevista: alla vigilia della fuga svela il suo intento al nuovo compagno di cella che avrebbe potuto anche denunciarlo ma poi la sua presenza si rivela indispensabile per superare ostacoli insormontabili per un fuggitivo solitario. Per ostinazione dobbiamo perciò intendere non irrigidita caparbietà ma perseveranza e raccoglimento: in altre parole, la dedizione sincera paziente fiduciosa e riflessiva al compito dell'evasione, all’esercizio delle qualità, e alla creazione degli strumenti che la consentono.

“Un condamnè à mort s’est èchappé ou Le vent souffle où il veut” è il titolo di questo film del 1956, che riprende le parole dell'evangelista Giovanni (3.8): « Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». Con una feconda asciuttezza, tuttavia, il film indirizza lo sguardo sul contributo creativo del nascituro alla propria nascita.

domenica 27 gennaio 2013

Memoria




Che nell’imperversare di agitazioni e nella deriva
di pigrizie e di torpori non si perda il vuoto del momento

che tra i concetti i pensieri e i suoni noti
fioriscano intenzioni di sorgente aperte

che in mezzo al buio dell’euforia e dello scontento splenda
la luce viva dell’ascolto e dell’attenzione



 

giovedì 24 gennaio 2013

In mezzo al nero luccicare delle tenebre..

 
 
 
 
 
 

“..molti anni prima ad Amsterdam mentre visitava una mostra di Rembrandt al Rijkmuseum.. anziché fermarsi davanti ai capolavori di grandi dimensioni, riprodotti un’infinità di volte, era rimasto invece a lungo davanti a un piccolo dipinto di forse venti centimetri per trenta e, a quanto gli sembrava di ricordare, proveniente dalla collezione di Dublino; dipinto che secondo la didascalia, rappresentava la fuga in Egitto, ma nel quale lui non riuscì a riconoscere né Maria con Giuseppe, né il bambin Gesù e nemmeno l’asinello, bensì soltanto in mezzo al nero luccicare delle tenebre, una minuscola pennellata di fuoco..”

W.G.Sebald, Austerlitz, Adelphi, 2002


 

martedì 22 gennaio 2013

Lettera dall'orgoglio ferito


So che c'è molto altro in cui poter mettere amore. Il fatto è che in questo momento sento di avere esaurito tutto il coraggio e l'entusiasmo e la voglia di amare ciò che faccio e che mi accade e per questo mi sto lasciando vivere senza metterci troppa passione o impegno. Non è la prima volta e so che è una fase transitoria da attraversare senza darle troppo peso perchè poi ritroverò il desiderio di vivere e non di sopravvivere. Ma è la prima volta che mi accade a seguito di quella che chiamerei "non reazione". Il senso di responsabilità mi permette oggi di continuare a fare le cose e a svolgere i miei "doveri" di figlia sorella zia collega amica ecc. e mi aiuta a tenermi lontana dall'autodistruzione ma non mi basta per sentirmi soddisfatta del qui e ora. Mi sento prigioniera del già fatto e del già noto. Quello che oggi posso metterci è pazienza ma mentre oggi passa, vivo aspettando domani, da circa due anni ormai, e non è per questo che ho lavorato con amore per tanti anni. Ci sono delusioni che non si superano se non dopo tanto tanto tempo e forse se invece di ritenermi responsabile di come sono andate le cose avessi reagito per quella che è la mia natura cioè “distruggendo” chi mi ha deluso oggi non starei così. Credo sia questo il punto in cui mi sono incastrata. Ho voluto dimostrare a me stessa che qualcosa era cambiato e in effetti nel comportamento qualcosa era cambiato sul serio, ma dentro di me no, non avevo fatto i conti con la mia natura ribelle e con la rabbia cieca e sorda che mi ha sempre contraddistinta. E’ come se a distanza di due anni stia ancora smaltendo i residui di una reazione totalmente estranea a me e per questo ancora più difficile da comprendere e superare. Mi sento inquinata e non in pace. Superare le mie intemperanze e confrontarmi con la mia natura aggressiva mi è facile perchè è ciò che di me conosco, ma una "non-reazione", un comportamento pacifico, no, è innaturale, e ne sto pagando ancora le conseguenze. Andare via in silenzio e non rispondere all'aggressione psicologica che stavo subendo è sempre stato inconcepibile per me e in questo momento nonostante la ragione mi porti a pensare che era la cosa giusta da fare e che ho fatto bene a non reagire, una parte di me continua a chiedersi se un urlo o un atto liberatorio mi avrebbero maggiormente giovato. Non lo saprò mai ma sono propensa a credere che la prossima volta reagirò in base alla mia natura e non a ciò che i testi di psicologia religione o filosofia ritengono più giusto perchè sono stanca di essere ciò che gli altri si aspettano da me e voglio essere solo ciò che sono. 

Un serpente velenoso incontra il Buddha, e tutto dispiaciuto e triste gli dice: "Beato, ma perchè gli abitanti del villaggio non appena mi vedono scappano via?"
Il Buddha risponde: "Perchè hanno paura di te, temono che tu possa morderli e ucciderli..."
Quando, dopo qualche tempo, ritorna in quel villaggio, scorge un serpente ferito buttato sulla strada, sanguinante, non riesce a sollevarsi nè a strisciare, ha appena la forza di biascicare qualche parola: "Adesso nessuno ha più paura di me, mi vengono incontro con i bastoni e mi percuotono, mi prendono a sassate, mi calpestano. Sono diventato il bersaglio della crudeltà degli uomini. Ecco cosa mi succede da quando ho seguito il tuo insegnamento. Che sfortuna ho avuto a incontrarti, le tue parole mi hanno portato alla rovina..."
E il Beato risponde: "Io ti ho detto di non uccidere, non di lasciarti fare a pezzi senza neanche sibilare mostrando la lingua e i denti. Se coltivi la presenza mentale imparerai ad agire con spontaneità e saggezza piuttosto che sulla base di una tua credenza, o di quello che dicono gli altri, o quello che la società vuole da te."

sabato 19 gennaio 2013

Il vocabolo "mio"




“Il senso del possesso deve in generale essere incoraggiato.
Gli esseri umani s’inventano continuamente pretese di proprietà che suonano ugualmente ridicole in cielo e nell’inferno, e noi [figli e funzionari di Satana, ndr] dobbiamo mantenerli su questa linea. (…)
Noi riusciamo a produrre questo senso del possesso non soltanto per mezzo dell’orgoglio, ma per mezzo della confusione.
Insegnamo loro a non far caso ai diversi significati del pronome possessivo –alle differenze sottilmente graduate che vanno dalle  “mie scarpe”, attraverso “il mio cane”, “il mio servo”, “mia moglie”, “mio padre”, “il mio padrone”, e “la mia patria”, fino al “mio Dio”.
Gli si può insegnare di ridurre tutti codesti significati a quello delle “mie scarpe”, al “mio” della proprietà.
Perfino nella stanza dei giochi si può insegnare al bambino di voler dire, quando dice “il mio orsacchiotto”, non quel caro oggetto sul quale egli immagina di riversare il suo affetto e con il quale sta in una relazione speciale ma “l’orso che posso fare a pezzi se ne ho voglia”.
E all’altro capo della scala, abbiamo insegnato agli uomini a dire “il mio Dio” in un senso non proprio molto diverso da “le mie scarpe”, cioè “il Dio sul quale ho dei diritti per i miei segnalati servizi e che io sfrutto dal pulpito – il Dio che mi sono accaparrato”.
E lo scherzo consiste nel fatto che per tutto il tempo il vocabolo “mio” in un senso possessivo completo non può essere applicato a nulla, da parte di un essere umano.”

C.S.Lewis, Le lettere di Berlicche, traduzione dall’inglese di Alberto Castelli, 1947, Mondadori  (2012, Oscar Mondadori)
A mezzo di queste lettere Berlicche“funzionario di Satana di grande esperienza istruisce un giovane diavolo apprendista, Malacoda, suo nipote, spiegandogli i mezzi e gli espedienti più idonei per conquistare e per dannare gli uomini.” Clive Staple Lewis (1898-1963) ha insegnato per oltre trent’anni a Oxford lingua e letteratura inglese, amico di J.R.R.Tolkien, è noto a molti come autore dei sette romanzi del ciclo “Le Cronache di Narnia”.
           

giovedì 17 gennaio 2013

Tra le dita

 
Secondo piano
 
Appena nato
 
Ombra lunga
 


da "4 canixstrada", 41 foto di Francesco Truglia fatte con cellulare Nokia c300+ppt f.t.2012

Violando il primo comandamento del fotografo, Francesco ha messo le mani davanti all'obiettivo. Tenendo aperte le dita.

martedì 15 gennaio 2013

Lettera dalla rabbia


 
Ho da darti la notizia che finalmente mi hanno fatto un contratto a tempo indeterminato, anche se questo non mi ha dato la gioia che immaginavo prima. Comunque la mia inclinazione alla distruzione non ha perso tempo e ieri mi ha provocato vari problemi sul posto di lavoro, e ora aspetto di essere richiamata dall'ufficio.
Purtroppo non riesco a tenere a bada la mia ira quando è provocata, e ciò mi porta inevitabilmente dalla parte del torto anche se ho ragione.
Non riesco a "tenere aperto" uno spiraglio nei momenti in cui mi sento provocata, la mia aggressività si scarica in un nano secondo, non mi frega niente delle conseguenze amare che seguiranno. Poi mi ritrovo a chiedere sempre e ripetutamente scusa.
In poche parole sono io a distruggere le mie opportunità di crescita, anche professionale, e faccio tutto il possibile per oscurare le mie capacità.
Ma è dura tenere aperto, a volte si vorrebbe proprio chiudere la porta in faccia a tutto.

 
Inclinazione alla distruzione: sembra essere così diffusa tra noi umani...
La collera ci sorprende, ci afferra, veniamo inghiottiti all’istante dentro la sua nuvola, prima di rendercene conto, e incredibilmente mentre ci stiamo, possiamo anche starci molto bene, ci sentiamo così vivi, veri, presenti!
Naturalmente ci pentiamo, chiediamo scusa, ma quell'atmosfera così intensa e densa ci ricattura, prima o poi.
Per uscire dalla rabbia, lasciarla, dobbiamo desiderarlo per davvero. Se lo desideriamo davvero, allora le escogiteremo tutte, cominciando magari con il liberarci da tutte quelle storie come la provocazione, le circostanze sfavorevoli, la sfortuna,  torto e ragione, che sono straordinariamente fuorvianti e immobilizzanti rispetto all'intenzione della liberazione dallo stato tossico. Intenzione che è creativa e immediatamente realizzatrice, è un seme buono piantato direttamente nel cuore. Allora: viene proprio dal cuore la voglia di liberarsi dalla rabbia, questo veleno che ti annulla nella tua individualità e nello stesso tempo ti fa sentire così in palla, così identificato? La riflessione sull’esperienza diretta ti chiarirà che la rabbia è quello stato in cui ti percepisci come superpotente proprio nel momento in cui come singolo non esisti più, perché sei strafatto e fuso completamente dentro quella cosa lì.  
Usciamo malconci e doloranti da questi episodi, eppure nonostante la sofferenza ci diciamo non posso farci niente, siamo rassegnati a soccombere o a tirare a campare, così…  
In altre parole alla rabbia siamo attaccati, e andando alla deriva tra razionalizzazioni e vittimismi, abbiamo rinunciato a liberarcene.
In tal caso, prima o poi riemerge, con tutto quel che segue…
 
Da quando mi è successo lo spiacevole episodio sono depressa, perchè non mi piaccio più in questa veste ribelle e ora lo sono ancora di più perchè ho saputo poco fa che riceverò una lettera di richiamo alla quale devo rispondere per iscritto.
Per ora sto piangendo e mi sento malissimo, perchè è come aver buttato al vento anni di duro lavoro e impegno in un sol colpo.
Non pensavo che questa cosa mi ferisse così tanto, mi pare di non poter uscire più da questo stato nero in cui mi trovo da tre giorni.
In realtà non so neanche cosa sia una lettera di richiamo,  ho assistito a mille episodi simili di lettere inviate agli altri, non avrei mai pensato che un giorno toccasse a me. Forse non è così grave come ora la vedo, ma questa cosa sento che ha distrutto una parte di me fiduciosa, mi sento fortemente in colpa (anche se sono stata provocata e quel giorno c'è stata una concatenazione di eventi sfortunati che hanno giocato contro di me), e sento che non posso assolvermi e che non valgo un c… sul lavoro e altrove.
Spero che passi in fretta tutto questo, perchè alla fine le mie intenzioni non sono mai state altro che buone, e non mi merito questo.

Una lettera di richiamo può essere è un campanello, una sveglia, un invito all'attenzione a quello che pensi dici e fai, non è altro che questo al di là delle formulazioni e del tono in cui viene confezionata...

domenica 13 gennaio 2013

L'attenzione, per Kafka


L’attenzione è la qualità saliente che Walter Benjamin attribuisce a Kafka:

“Se Kafka non ha pregato –ciò che non sappiamo- gli era propria in altissima misura ciò che Malebranche definisce “la preghiera naturale dell’anima”: l’attenzione. E in essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura”.

venerdì 11 gennaio 2013

Calmi fervori



Leggo una poesia di Gianfranco Palmery pubblicata pochi giorni fa sul blog “Poesie senza pari”:


LA NOTTE E LE SUE NOIE
Niente più notti illuminate, luci
di notturne tenebre – la notte
e le sue noie, consumate, spese, come
i calmi fervori che le hanno accompagnate
negli anni – e ora soltanto ore
vane, lente, disertate
sedia e carte nell’alone di lampade
laboriose: finite qui, o notti, spente
le luci sulle insonni, sonnolente
pose
Da Medusa, Editore Il Labirinto, 2001

Un’espressione mi colpisce: “calmi fervori”. Il suono trova in me una via facile, una via in discesa, e arriva diritto al cuore. Riconosco che questa via diretta è stata aperta dal desiderio, dalla ripetizione di un desiderio dominante di “calmi fervori”. Il poeta ha scoccato dal suo arco una freccia che mi sveglia trovando una risonanza profonda in una vita che ha ruotato “negli anni” intorno al mozzo di “calmi fervori” da acquisire e da accumulare.

Anche il rimpianto - "orchestratore dell’inverno": come il poeta infelice felicemente lo dice in Tutto un inverno nero, doloroso, un'altra eccellente poesia, presentata sullo stesso blog -si nutre a sua volta del ricordo di “calmi fervori”. Mirabilmente il suono delle due parole accoppiate evoca una stagione irrimediabilmente passata di ore che non furono “vane" nè "lente”, illuminata da luci diffuse da “lampade laboriose”.

E' un momento importante quello in cui ci rendiamo conto di adoperarci quotidianamente, con allenata naturalezza, a riportare in vita, grazie a immediate e sentite espressioni, mondi perduti o altri dalla realtà in cui siamo qui e ora, e  mentre ci chiudiamo dentro di essi, li sentiamo: i più veri, i più autentici e i più “miei”.
Il tutto  avviene in pochi istanti.
E se si ripetono, ripetendosi tendono a occupare il momento presente con tutta la loro straripante assenza.

 

mercoledì 9 gennaio 2013

La posizione zazen




Shunryu Suzuki, il maestro di Mente zen, mente di principiante raccomanda:

“La cosa più importante nell’assumere la posizione zazen è tenere dritta la spina dorsale. Orecchie e spalle dovrebbero essere allineate. Rilassate le spalle e spingete in alto, verso il soffitto, con la nuca. Dovreste anche far rientrare il mento. Quando il mento è proteso in alto, non c’è forza nella vostra posizione; probabilmente state nel mondo dei sogni. Sempre per acquistare forza nella vostra posizione, premete il diaframma in giù, verso l’hara, o basso addome. Ciò vi aiuterà a mantenere l’equilibrio fisico e mentale.”

E’ importante questa precisazione:

“Queste forme non sono mezzi per ottenere il retto stato mentale. Assumere questa posizione è di per sé lo scopo della nostra pratica. Quando tenete questa posizione, avete il retto stato mentale, perciò non è affatto necessario raggiungere qualche stato speciale. Quando cercate di raggiungere qualcosa, la vostra mente comincia a vagare in qualche altro luogo. Quando non cercate di ottenere niente, allora avete il corpo e la mente qui, proprio qui.”

lunedì 7 gennaio 2013

Autoritratto di Rembrandt

Non ti viene detto altro
che questo: tieni aperto
e tu sorridi perché hai il cuore
e il sorriso per sorridere
nel frattempo invecchi o ti ammali
forse perdi qualcuno dei tuoi cari
l’amica più amata
e sempre intanto ti viene detto
soltanto: tieni aperto così in un soffio
ti vedi avanti all’uscio
sulle spalle la mantellina
il lume di candela in mano
e sempre senti la stessa
voce – tieni aperto
Tu sorridi e non chiudi anche
in quel momento incerto.


da Tieni aperto di Michele Colafato, Edizioni Il Labirinto, 2012