lunedì 30 dicembre 2013

Festeggiare il Nuovo Anno, rinnovare la nostra vita








L'unico dell'anno vecchio o il primo dell'anno nuovo?
 
 
 

Per David Chadwick: “Il punto dei discorsi di Suzuki non era di dire la verità come egli la vedeva, ma di liberare le menti dagli ostacoli, così che potessero includere le contraddizioni.”

Restare chiusi nella propria piccola mente, per quanto benintenzionata e fedele all’ortodossia buddista, alla correttezza, alla coerenza morale o al senso comune serve essenzialmente all’autorassicurazione, e può essere dannoso e controproducente. “The way that helps will not be the same. It changes according to the situation.” Quel che è di aiuto non è sempre lo stesso, cambia in accordo alla situazione. La flessibilità è indispensabile per rendersi utili e d’aiuto alla società.

Il 31 dicembre 1945, durante il periodo dell’occupazione americana, il tempio di Shunryu Suzuki, Rinso-in, ferveva di entusiasmo e preparativi per festeggiare l’Anno Nuovo.

“La gente era ancora depressa a causa della guerra, ma Shunryu sentiva che questa settimana di festa e di rivitalizzazione poteva aiutarli a sollevarsi” racconta Chadwick.  “In qualche modo -diceva Suzuki-  inganniamo noi stessi e ci godiamo l’ultimo giorno dell’anno. Questo si basa sull’approccio buddista alla vita. Momento dopo momento dobbiamo rinnovare la nostra vita, non dovremmo restare attaccati alle vecchie idee di cos’è la vita o qual’è la nostra concezione della vita. Specialmente a fine anno dovremmo  rinnovare completamente i nostri sentimenti e ripulire completamente anche le nostre automobili. Se restiamo sempre attaccati a vecchie idee e ripetiamo sempre la stessa cosa, allora siamo prigionieri nel nostro vecchio modo di vita. Qualche occasione di effervescenza e di festa è necessaria per darci coraggio.”

L’auto-inganno e  il godimento sono talvolta necessari e utili per non soccombere alle vecchie idee e alla ripetizione. La priorità va al rinnovamento completo, al non “restare prigionieri nel nostro vecchio modo di vita”. Occorre  non restare prigionieri di niente: non del patriottismo e del nazionalismo né del buddhismo, non della “old time religion” né della sua cancellazione in nome di altri ‘ismi’, non della crisi nè del superamento della crisi, non di come eravamo nè di come potremmo essere.

"Dovremmo capire le cose non da un punto di vista soltanto. Chiamiamo qualcuno che capisce le cose esclusivamente da un lato tambankan. Una mente attaccata alle vecchie idee e alla ripetizione e chiusa alle contraddizioni è –diceva Suzuki- la mente di un ‘tambankan’.”

Tanti auguri di rinnovare la nostra vita, includere le contraddizioni,  festeggiare l’Anno nuovo.  


sabato 21 dicembre 2013

Natale, ritorno a casa







Il primo kaki dell'Anno Nuovo o l'ultimo dell'Anno Vecchio?



Natale è ritorno a casa. Il Natale è festa del ritorno a casa. Anche i Re Magi, sempre agitati, sempre alla ricerca, trovano "in mezzo al nero luccicare delle tenebre" un punto fermo di luce e di calore. Quando ritorniamo a casa, qualcosa richiama la nostra attenzione; quando ne fuggiamo, vogliamo fuggire e allontanarci il più possibile e non prestiamo attenzione se non al contachilometri e al tempo  che ci separa dalla meta. Quanto manca? Quanto ancora? Cerchiamo la felicità e la liberazione nello spazio e nel tempo, mentre quando ritorniamo a casa la liberazione è frutto di un’attenzione aperta e si realizza nel momento presente- in cui, come dice in “La ricerca della primavera” il poeta Tai-i della dinastia Sung, dopo aver vagato inutilmente lontano, ritornando a casa prendi “in mano un rametto di susino in fiore” e trovi la primavera- ed è momento gravido di ispirazione e di incoraggiamento. In quel momento ci avviciniamo con fiducia alla vita e ci scrolliamo di dosso l’agitazione e l’accidia, i frutti malati dell’indulgenza, in cui tante volte ci siamo attardati.

Dobbiamo intenderci sul che cosa significhi ‘ritorno a casa’. E’ il ritorno al qui e ora, al momento presente, che spesso si accompagna al respiro ed è sempre segnalato da una sensazione di sollievo e di rilassamento, qualcosa che impariamo a riconoscere e per cui ci sentiamo grati.

Tutte le volte -e sono tantissime, ma non ce ne accorgiamo, perché diamo la cosa per scontata- ci distacchiamo dal qui e ora, ci allontaniamo dal momento presente, perché è triste, o noioso, o freddo e piovoso, o insoddisfacente, oppure stiamo inseguendo una cometa luminosa in cerca della felicità, della liberazione o della primavera: tutte quelle volte noi forziamo la nostra esperienza, e quello che ancora non sappiamo, nei “binari morti” del vecchio regime,  di quello che Krishnamurti chiama "già conosciuto".

Ricordare il Natale, con tenerezza, con gioia: tanti affettuosi auguri di “ritorno a casa”.




giovedì 19 dicembre 2013

Il lavoro dell'attenzione per Malebranche






Malebranche che riconosce nell’attenzione « la preghiera naturale dell’anima» scrive:
 
«In effetti questo lavoro dell’attenzione è dapprima grande, e la ricompensa molto mediocre; e d’altra parte ci si sente a ogni momento sollecitati, incalzati, agitati dall’immaginazione e dalle passioni, di cui è dolce seguire l’ispirazione. Tuttavia è una necessità, bisogna invocare la Ragione per esserne illuminati. Non c’è nessun altra via per ottenere la luce e l’intelligenza se non il lavoro dell’attenzione. »
Malebranche, Trattato sulla morale







 

venerdì 13 dicembre 2013

Un semplice koto




A Roma nei mattini chiari di questa fine stagione, una luce calma si posa sui resti del Palatino, l’arco di Costantino, la basilica di Massenzio, e prima dell’imbrunire mentre scendi dal Viale del Parco del Celio resta avvolta alla Basilica dei Santi Giovanni e Paolo con i cipressi e i pini che la coronano.

Spesso però i nostri passi sono distratti e non vediamo niente. Siamo appesantiti da una sola magnetica misura: quello che ho perso, quello che ho guadagnato, come ho perso, come ho guadagnato..

Lo splendore di questi ultimi giorni d'autunno mi ha ricordato la poesia “Un semplice koto” del poeta giapponese Jukichi Yagi (1898-1927), di cui abbiamo su questo blog già pubblicato la poesia “Quiete”-il koto è uno strumento musicale a corda della famiglia della cetra:

 

Un semplice koto se lo deponi
 
in questo splendore

comincerà a suonare piano

alla bellezza dell’autunno incapace

                                        a resistere.

 
 
 
 
 
 
 

venerdì 6 dicembre 2013

Amarezza e amore di Gianfranco





Gianfranco Palmery, in un certo numero di giorni, prima di lasciare questo mondo, ha completato la creazione di un’isola chiamata Amarezza, questa parola contiene il mare e un esito di brezza, o soprattutto una variante di ebbrezza, bensì amara, e l’isola è anche Gianfranco stesso che ci si smaschera e denuda, naturalista e natura, fisio-patologo e organismo, psicologo e psiche, letterato e opera, scenografo e scena, attore e azione, tanghero e tango, uomo vecchio e malato e vecchiaia-malattia, giardiniere e giardino.  

Sull’isola crescono molte specie di piante, erbe e fiori amari (il che ricorda il brano dello Zibaldone 4175, 4176, 4177 dall'incipit "Entrate in un giardino di piante, di erbe e di fiori", dove leggi: "non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento"): legarsi al dito le offese subite, rovistare nel risentimento, affliggersi e rinforzare i muri torti delle afflizioni, contare e ricontare le ingiustizie che ci hanno colpito, cucire e scucire le ferite, rammemorare le umiliazioni, ostentarne le reliquie, investire e capitalizzare la sofferenza…

C’è  l’amarezza-farmaco: oh amarezza / tu curi il cuore / lo liberi del mondo, il triste morbo che ci consuma e affanna..
Ma nel farmaco si cela una pozione velenosa che illude e inganna: la salvezza / non può venire da un veleno puro / distillato mortale della mente / messa alle strette dal mondo che fa muro / e la umilia in una lunga contesa

L’amarezza ha natura seduttiva e cangiante, mentre da vivo giochi e godi a fare il morto con il mondo, ecco che ti ritrovi negli inferi per accorgerti che sei davvero morto: se sentirti / un tempo morto al mondo / ti piaceva, ora è il mondo / che ti considera morto..

E persino le dolcezze pasquali, di anni lontani, sanno di amaro mentre le si gusta, amareggiate da una amara nostalgia…

L’amarezza pur copiosa, solidifica rapidissimamente; come lava bollente di rancore si converte in un baleno in materiale da costruzione resistente e tossico. E l’isola dell’amarezza ambisce a farsi continente, in sé perfetto, ma fatalmente decade e si rinchiude nel sogno di qualcuno che la liberi da se stessa o la faccia finita.

Simultaneamente l’amarezza è grande mare, oceano allungato tra i massicci dell’Io, e quelle isolette sparse che sono gli io-pigmei, gli io degli altri, quali li incontriamo andando a caccia o li percepiamo, insignificanti e queruli, nel corso dei peripli e delle processioni che ripetiamo identici intorno a noi stessi. E ci avvediamo, prodigio di poesia e di consapevolezza, come sia tanto più facile annaspare e naufragare amaramente in questo mare amaro quanto meno ci si lasci bagnare dalle acque sorgive dell’accettazione e del rilassamento, nei cui riguardi si nutre diffidenza sapida di fiele e di bile, quasi che abbandonarci e affidarci al fluire di una corrente festiva fosse un tradimento di quella categorica serietà e della arcigna vigilanza che occorre esercitare senza posa nei confronti della vita.
 
Gianfranco invita a toccare con mano la ferita aperta e a vedere che l'amarezza è morte, mortifera, morte che respira e che avvelena con il suo fiato, morte in vita che si incarna in colui che è amaro, senza redimere.

Vorrei tenerla tutta
racchiusa in me, mia cara, l’amarezza
che mi riempie ma a volte trabocca
e si fa stizza, ira
che t’investe: una ventata cattiva
esce dalla mia bocca
come un soffio di morte rinverdita
poiché io sono un morto che respira
a fatica e a fatica si trascina
ancora nella vita.
 
Nell’Amare-zza c’è tuttavia il contrappasso e l'impronta dell’ Amare. L’amarezza “contrappassa” un “amare” incompleto e incompiuto, e si riflette tardiva nella sorgente dell’amore, lo specchio di errori e incurie.

Amore vuole lume d’intelletto
e quell’offerta di sé
che antepone l’oggetto
amato a ogni altra mira:
non può esserci errore nel soggetto
amante poiché è amore che lo ispira -
e invece quanti errori, quante incurie
nel mio amore imperfetto
per voi tutti miei amati
mie amate, che mi fanno
sbranare dai Rimorsi e dalle Furie
e per mio duro danno
resteranno per sempre imperdonati.

Gianfranco è però capace di volgere l’amarezza in danza.  Passo, doppio passo, contro passo, svolta, risvolta, gira e volta, cadenze e battute di tango ricorrono nei suoi versi e trasmutano l’amaro e il tossico dell’amarezza in ritmo:

Solo-solo assediato da nemici
interni, esterni, eterni:
non una mano amica,
non un soccorso: l’inatteso, l’ospite
che bussa alla tua porta
di solitario sisifo e ti libera
dall’amara fatica…
 
E ancora:

O vita senza vita
che somigli a una morte senza morte,
morte sempre patita
finché la vita non chiude le porte,
così se vita in morte è morte in vita
vivo una morte che sembra infinita

Il ritmo sapiente e scorrevole delle battute e delle controbattute non cancella l’amarezza bensì l’incanta e ammalia per qualche istante, la confonde rovescia e dischiude...  E nell’accenno di apertura, nel varco si apre alla generosità.

Generosi non sempre sono i versi che declamano una generosità di maniera,  ma i versi rubati all’amarezza e all’affanno, versi che ci aiutano a capire l’amarezza e a evitarla, a non coltivarla.

Il balsamo e il farmaco di Amare-zza resta così pur sempre Amore, dono di sé, del proprio tempo, della propria voce, del proprio ritmo, della propria integrità, gocce benefiche di una amara piega che preparano la docilità e la mansuetudine.

(Si veda per i versi riportati in questo ricordo di Gianfranco: Amarezze - Madrigali e altre maniere amare di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, 2012)