domenica 20 aprile 2014

Che si avverino i loro desideri...







Che si avverino i loro desideri, che possano crederci e che possano ridere delle loro passioni... Infatti ciò che chiamiamo passione, in realtà, non è energia spirituale, ma solo attrito tra l'animo e il mondo esterno. E soprattutto che possano credere in se stessi e che diventino indifesi come bambini, perché la debolezza è potenza e la forza è niente. Quando l'uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido così come l'albero. Mentre cresce è tenero e flessibile, quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagni della Morte...debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza, ciò che si è irrigidito non vincerà....

da Stalker (1979), un film di Andrej Tarkovskij (1932-1986)





Una voce fuori campo accompagna Stalker che avanza a fatica tra le mura diroccate di un rudere, esce da una finestra, gemendo, il suo viso manifesta apprensione, passo dietro passo avanza, forse su di un cornicione, infine salta dentro un tunnel e grida allo Scrittore e al Professore, i due che sta guidando nella Zona: “Venite qui, siamo sulla buona strada, più avanti il tunnel è più asciutto..”





giovedì 17 aprile 2014

Solerzia




Nel secondo Sefer Torah incontriamo un verso della Parashat HaChodesh : “…e osserverete (vigilerete) le matzòt…” (Shemòt; 12, 17), nel quale il commentatore Rashì ci invita a non leggere matzòt, bensì mitzwòt, in virtù dell’omografia delle due parole che hanno in ebraico le stesse consonanti. “…come non devi lasciare ferme le azzime a lievitare così non dobbiamo lasciare fermentare una mitzwah che ci capita di eseguire…”.
In questo senso la matzah, per Rashì, diventa il paradigma di ogni mitzwah la cui dimensione è essenzialmente la solerzia. I cambiamenti e le trasformazioni, di cui Pesach è simbolo, passano quindi attraverso un’operosità veloce. Ci sono situazioni in cui le analisi dettagliate e gli approfondimenti concettuali possono determinare una lievitazione eccessiva che rischia di trasformare tutto in un ebraismo immobile caratterizzato e contaminato da troppe sovrastrutture ideologiche. Il chametz, del resto, non è forse una matzah che ha “riposato” troppo?
rabbino Roberto Della Rocca, da Pagine Ebraiche








sabato 12 aprile 2014

Han Shan, Montagna Fredda




Se sali per la via della Montagna Fredda,

la strada della Montagna Fredda non ha fine,

lunghi burroni pietrosi, pietre su pietre,

torrenti montani folti folti d'erba,

muschio scivoloso anche senza pioggia,

pini che mormorano eppure non c'è vento,

chi può staccarsi dalle cose del mondo

e sedersi con me tra le nuvole bianche?

Han Shan, Montagna Fredda, un poeta cinese di epoca Tang (618-907)
edizioni TARARA' a cura di Anna Bujatti





domenica 6 aprile 2014

Lettera dall'oscurità





Oggi è una di quelle giornate disperate in cui la depressione mi fa vedere tutto nero. Mi toglie la forza di fare qualsiasi cosa, so che dovrei reagire, ma mi sento così schiacciata e oppressa e sola che riesco soltanto a vedere tutto nero e non ho neanche la forza di meditare.
Mi chiedo quanto può durare questo stato, che mi pare senza via di uscita, so che passerà, ma intanto mi spaventa. Mi chiedo allora cosa può veramente succedermi e di cosa ho paura, e se sono codarda io nel non volerne uscire fuori o se devo solo sopportare e avere fiducia che passerà.
Spesso però mi è successo che quando decido di prendere di petto le situazioni, di impasse, di nero totale, o di paura, riesco solo a peggiorare le cose.
Mi sento come se camminassi su un burrone e che posso precipitare da un momento all'altro.
Forse sarei più tranquilla a vederla diversamente, e cioè che nel burrone ci sono già, che non posso andare più giù ma posso solo aspettare, senza paura e con fiducia, che tornino le forze per la risalita.
Il punto è proprio lavorare per non lasciarmi travolgere dalla paura e dalla sfiducia. Ma non mi sento obbligata a  uscire di casa se non ne ho voglia o a fare qualcosa di concreto. Può essere utile, mi rendo conto, ma per ora non ne sono capace.
In periodi così mi identifico totalmente con quello che sento, ne sono consapevole ma non riesco a trovare la MIA via per lasciar andare un po' di più.
Davvero non c'è altro da fare che osservare questa identificazione totale e accettare la sofferenza che provoca? Cioè, può bastare?

"Veramente, non c'è altro da fare che accettare la sofferenza?"
Finché aggredisco il buio e l'oscurità con il desiderio che finiscano portandosi via sofferenza, isolamento, depressione, le mie energie sono bloccate da questo sforzo e l'universo mi si chiude addosso. Invece, l'accettazione del buio, dell'oscurità, del nero, senza riserve, senza se e senza ma, il dire sì, l’accettare di toccare il fondo, stiamo quanto più rilassati possiamo nella condizione  in cui siamo, respiriamo essendo presenti, questa accettazione aperta dischiude uno spiraglio alla luce e all'inaspettato che alberga in noi stessi e che aspetta questa apertura per manifestarsi.
Non so se questo può "bastare", come dici tu.
Ma, bastare a che cosa?

"Essere quanto più rilassati nella condizione in cui siamo" è una frase che sento vera e buona per me, perchè mi calma subito,  perchè non ha pretese e perchè mi dice che va bene anche così.
Sento che devo praticare su questo e con questo.  

In una poesia di David Whyte (che ho letto citata da Frank Ostaseski) si dice:

"La notte ti darà un orizzonte
più lontano di quanto tu non riesca a vedere.
Qualche volta ci vogliono l'oscurità e
la dolce prigionia della tua
solitudine per imparare
che qualunque cosa o chiunque
non ti renda vivo
è troppo piccolo per te."