venerdì 24 febbraio 2017

Oltre le prescrizioni ricevute





“Il racconto tradizionale narra del re Śuddhodana a cui nasce un figlio e a cui i brahmani predicono che questo figlio diventerà un monarca universale oppure un grande saggio veggente. Il padre si premura di evitare che questa seconda possibilità si avveri e organizza per il figlio, Siddhārta, una vita di piacere protetta dalla visione e dalla conoscenza degli aspetti negativi della vita. Inevitabilmente, però –come scrive Cristina Pecchia- questo figlio privilegiato viene a contatto con sofferenze di vario tipo in alcune gite fuori dal palazzo. Siddhārta incontra un vecchio, in una successiva uscita un malato, e in una terza un morto. (...) Di fronte all’inquietudine che prende Siddhārta, l’auriga lo esorta a non disprezzare i piaceri dei sensi e anzi a riconoscere l’appagamento dei sensi e la passione amorosa come un bene altissimo; è un invito a identificarsi con il sistema dato dalla tradizione. L’atteggiamento di Siddhārta è controcorrente: un dato conoscitivo, legato alla presa di contatto con la realtà, è fonte di un diverso sguardo sulla realtà tutta e di una profonda inquietudine per le certezze che va a minare...
Siddhārta non si distrae, non fugge, rimane con questa inquietudine e in modo attivo, con un’apertura alla scelta, all’eventuale cambiamento. Esce di nuovo dalla sua città alla ricerca di quiete e per vedere luoghi boscosi; dopo una fase meditativa in cui comprende come tutto sia sofferenza, vede un asceta itinerante (śramana) che vive senza possessi in luoghi solitari e che persegue lo stato di libertà dalla sofferenza. Siddhārta decide di farsi asceta itinerante; sceglie di andare fuori dal palazzo, fuori dal ruolo assegnatogli fin dalla nascita, fuori dall’identità propostagli dalla famiglia (il padre) e dalla società (l’auriga), e di intraprendere il percorso śramanico, ricercando nuove guide. Le pratiche di rinuncia di vari asceti non lo soddisfano perché in effetti mirano a raggiungere il cielo e non a superare in modo definitivo il ripetersi dell’atto e dunque la rinascita. Si recherà poi da due maestri che gli daranno insegnamenti molto elevati relativi a pratiche meditative e alla natura della liberazione. Ma anche questi insegnamenti non costituiscono una risposta soddisfacente perché l’abbandono progressivo che dev’essere praticato non arriva all’abbandono di colui che compie le pratiche, ovvero il sé, che potenzialmente può sempre legarsi alla sofferenza. La sua ricerca –puntualizza Cristina-  prosegue oltre le prescrizioni ricevute all’interno della sua cultura. Dopo una lunga pratica di digiuno e di rinunce che non trova adatta a raggiungere la liberazione decide di recuperare le forze fisiche necessarie alla mente e accetta il riso offertogli da una donna; ne mangia, si bagna nel fiume, e si incammina verso Gayā, dove la sera riprende la meditazione ai piedi di una ficus religiosa, l’albero della bodhi (risveglio, illuminazione), e raggiunge il Risveglio, diventando un buddha, un risvegliato. Di nuovo una scelta, attraverso un’inquietudine generata da una nuova conoscenza, ha fatto aprire a un’altra scelta, quella di uscire ulteriormente dai tracciati proposti dall’esterno, che fanno accettare la propria identità quanto più essa è costruita secondo quei tracciati: accettare di mangiare riso è infrangere il digiuno, è non contribuire alla costruzione dell’identificazione con il perfetto śramana; ma il fatto di togliere materiale a questa costruzione porta al Risveglio. L’intento è infatti abbandonare qualunque veste l’io assuma e questo può tradursi in adesione o negazione nei riguardi di un’immagine, un ruolo ecc. ai quali in definitiva si attribuisce un valore di realtà.
L’esperienza del Buddha mostra che le parole del maestro, anche quando hanno la forma di istruzioni, di precetti, non possono che valere come indicazioni di percorso, perché la realizzazione di quel percorso, ovvero uscire dall’identificazione con alcunché, sia pure il modello ascetico, significa non dare più credito all’idea di io, né concettualmente né emotivamente. Il punto in cui ciò accade si trova sperimentando; se, quando e quanto riso mangiare è cosa che nessun maestro può dire e si può decidere soltanto attraverso una pratica rivolta a decostruire l’io, non a esaltarlo o mortificarlo. Si dice per esempio nel Suttanipāta:

I saggi chiamano vincolo quella visione in base alla quale si vede il resto come inferiore. Perciò un bhikku (monaco) non dovrebbe dipendere da niente che abbia visto, udito o pensato, né da una condotta virtuosa, né da voti.

Una visione, una dottrina, una pratica, alla quale si aderisce può diventare fonte di dipendenza, vincolo che restringe all’ambito del positivo ciò che la costituisce e relega al livello inferiore ciò che è diverso da essa”.


da C.Pecchia, Scegliere il Buddha come maestro, in Maestri (a cura di M.Colafato), FrancoAngeli editore









sabato 11 febbraio 2017

“Questa è la verità!”





Talvolta ci ritroviamo –a chi non è capitato?!- a tuonare con piglio trionfante: “Questa è la verità”, trascurando del tutto che è, al massimo, la mia verità... Nel senso che posso avere, intenzionalmente o in preda alla confusione, taciuto o trascurato quel dettaglio che imporrebbe di completare o riformulare il giudizio che mi ha spinto a dire “questa è la verità” -e anche nel senso che, quale che sia la mia affermazione, essa non può che riflettere il mio attuale stato d’animo, il mio sentire, la mia mente, nei confronti dei miei interlocutori e di me stesso.
E una verità urlata con rabbia, o intrisa di odio, brandita come un’arma, che tipo di verità è? Se attribuiamo alla verità la qualità di ciò che è buono, può forse ambire a tanto una cosiddetta verità che spaventa, offende, umilia, e non arretra davanti alla distruzione dell’altro?
Allora voglio cercare di capire cosa c’è, di mio, in una siffatta verità. 
Orgoglio, senso di superiorità, voglia di rivalsa, insoddisfazione rovesciata o riscattata... Oppure, valutando la mia esperienza, posso affermare che la verità che annuncio approfondisce la conoscenza di me stesso nel senso della integrazione o della liberazione da condizionamenti che onestamente riconosco come miei...
Non intendo rinunciare alla verità in nome del relativismo o del quieto vivere, bensì onorare quel processo di realizzazione interiore che va sotto il nome di ricerca della verità e che implica sempre il rispetto della dignità umana, la tranquillità e il non attaccamento al risultato.

Un approccio consonante con quanto mi sta a cuore l’ho trovato in Rondo’, un bel romanzo di fine Novecento, dello scrittore di origine, e di lingua, polacca Kazimierz Brandys:

 «Male» bisbigliò, «lei si è comportato male». Io mi sedetti sul bordo di uno sgabello da cucina, sorbendo in silenzio la tisana. Non l’avevo mai vista tanto triste. «Non parla con nessuno, poverina, non riesce a mangiare né a dormire. Perché l’ha spaventata così?» bisbigliò la signora Lala triturando con le sue manine una sigaretta piena di pessimo trinciato. «Ho dovuto dirle la verità» sospirai profondamente, «lei mi deve capire». La signora Lala mi fissò scandalizzata: «La verità? E cosa c’è di più facile che dir la verità? La verità esiste per esser risparmiata agli altri. E’ tra noi come dicono le Sacre Scritture... Un uomo buono e onesto non dice la verità, è sufficiente che la rispetti. In silenzio, come si rispetta il Signore Iddio».
da Rondò di Kazimierz Brandys, p.327, edizioni e/o






sabato 4 febbraio 2017

La casa spaziosa








La casa è la vita. Vivere nella paura è vivere nella stanza più misera della casa. Afflitti da preoccupazioni, chiusi dentro ristretti orizzonti mentali, dimentichi che la spaziosità interiore è vitale.

Forse, nonostante la miseria e l’angustia, siamo portati a radicarci nella paura e nelle preoccupazioni quando siamo restii e ci opponiamo al fluire della vita. Il cambiamento che investe non solo le nostre opinioni ma la nostra identità e la totalità del nostro essere porta sofferenza. E le resistenze sono ostinate perchè la metamorfosi a cui siamo chiamati è anche intellettuale, ma è essenzialmente pratica, è spirituale.
In questo passaggio, necessario e contrastato, lento e vischioso, in cui l’illusione di poter restare aggrappati alla vita passata mette a rischio la vita stessa, quello che raccomandiamo all’amico –di andare avanti, con la mente e con il cuore- dovremmo iniziare a farlo in prima persona.

Dice il poeta persiano Hafez di Shiraz: “La paura è la più misera stanza nella casa. Preferirei vederti in condizioni di vita migliori.”