Di
ritorno dall’ufficio pensioni salgo sul tram, il numero 3: il consueto
parlottìo di donne di servizio dall’est Europa, le letture di libri o di smartphone degli studenti de La
Sapienza, gruppetti di giovani cinesi e latini, le facce di anziani e di vecchi
italiani.
Resto impressionato da alcune facce affaticate, consunte, voci flebili, occhi infossati, viso
tirato, corpi prosciugati da tante illusioni andate in frantumi.
Il
bilancio della vita sembra un tutto a perdere, ci si è affidati a illusioni, le
abbiamo create a nostra immagine e somiglianza per far fronte a rovesci e
sconfitte e per risalire la china dopo altre precedenti illusioni che si erano infrante e che ci avevano lasciato delusi. Arriva così il giorno in cui ci si
ritrova senza più la voglia o l’energia di riprovare nè di capire. Talvolta ci si
porta dentro un senso di delusione irredemibile così carico di angoscia e di confusione. Scopriamo che i nostri sogni non sono eterni. Lo sapevamo sì, ma
intellettualmente - non l’avevamo ancora compreso davvero. Credevamo che i
pupazzi di neve che plasmavamo durassero per sempre…
Nel buio
di tale condizione l’esserne consapevoli non pare dare sollievo.
A che
serve? - può venir fatto di chiedersi, di interrogare. L’essere umano confuso
dalla sofferenza e dalla delusione può trovare rifugio nella consapevolezza
della sua misera sorte? Non sarebbe meglio cercare uno sfogo nei piaceri,
nell’ebbrezza, nell’oblìo?
Queste
domande possono suonare inutili o provocatorie, ma sono per certi versi
necessarie e salutari.
Se
non le ascoltiamo rischiamo di nascondere a noi stessi che illudendoci di
scampare alla sorte comune a tutti gli esseri umani, grazie al supposto
speciale valore di nostri progetti o pensieri, stiamo andando incontro all’ennesima delusione. L’illusione di
una presunta salvifica distinzione deve essere svelata dalla realizzazione
della nostra comune umanità, del nostro non essere superiori, o a parte, rispetto
agli altri esseri umani -solo questa realizzazione può aprire la strada alla
compassione verso tutti, me compreso, ogni essere vivente incluso. L'attenzione, che Malebranche definisce "la preghiera naturale dell'anima", non deve essere menomata e avvilita dal giudicare questo o quello, ma allargarsi in una disposizione di benevolenza e apertura. Allora la consapevolezza non
sarà quella fredda e amara medicina che va presa per difendersi dalla realtà
così com’è, ma accompagnandosi a una pratica che non mi isoli dagli altri, apra il mio cuore a vivere il momento presente con amorevole
gentilezza e con fiducia.