giovedì 28 febbraio 2013

Lettera all'orgoglio ferito




 

Dici che vuoi essere solo quello che sei, e che sei stanco di guru e di libri di religione, etica, psicologia… Ma che colpa hanno i guru e i libri? Ti sei rivolto ad essi perché eri condizionato a farlo e ora sei deluso perché non hai trovato la liberazione che cercavi. Infatti il tuo è un grido di esasperazione o di disperazione. Nessun guru, nessun libro, può fare il lavoro che spetta a te. 

Dici di voler essere soltanto quello che sei, ma devi cominciare a comprendere che tu non sai quello che sei.

Per ora sei soltanto la voce di stati d’animo, di stati mentali, che incarni talvolta con molto entusiasmo e passione ma essi sono te, tu non sei, sei trasportato di qua e di là, dal loro accavallarsi, impennarsi, dilagare, come fai a sapere di essere qualcuno o qualcosa se sei in balìa, se non conosci quello che sta per capitarti?

Quando dici di voler essere soltanto quello che sei, non stai mostrando nessuna pazienza, fiducia, intenzione simpatetica verso le tue potenzialità. Non vuoi star bene, essere saggio, felice, non vuoi altro che morire, davvero, in quello e con quello che sei già stato.

Ascolta la voce che parla a tuo nome, il suo tono insofferente e aggressivo e nello stesso tempo querulo, il suo acuto stridente e intriso di dolore, fai attenzione alle sensazioni che provi nel corpo. Di chi è questa voce, di chi le contrazioni fisiche che si accompagnano ad essa?

Fai lo sforzo, il giusto sforzo, di lasciare andare la voce che afferma ‘non ne posso più’ e non eleggerla a ‘mia voce’ o ‘mio portavoce’.

Puoi permetterti di non sentire in termini di ‘io non mi merito questo’?

‘Non ho fatto tutto quello che ho fatto per arrivare a questo, per ridurmi a questo, per essere trattato così?’

Eppure se non lo fai, stai evitando di curare la tua ferita, stai preparando un futuro di altre ferite e di altra sofferenza.






domenica 24 febbraio 2013

Hell it's not punishment, it's training


 
L'inferno non è punizione, è addestramento

“One day after lecture a student sitting on a zafu on the carpet asked, “What is hell?”

“Hell is having to read aloud in English,” Suzuki answered.

After the laughter subsided, the student persevered and Suzuki said, “Hell is not punishment, it’s training.”
 


from David Chadwick, Crooked Cucumber.The Life and Zen Teachings of Shunryu Suzuki














venerdì 22 febbraio 2013

Il paradiso



"Ci sono due peccati capitali dell'uomo, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e inerzia.

A causa dell'impazienza sono stati cacciati dal paradiso, a causa dell'inerzia non vi tornano.

Forse però c'è solo un peccato capitale: l'impazienza.

A causa dell'impazienza sono stati cacciati, a causa dell'impazienza non tornano."


Franz Kafka, Aforismi di Zürau, a cura di Roberto Calasso, Adelphi, 2004
 
 
 
 
 

martedì 19 febbraio 2013

Dialogo sulla paura


Sono chiusa in una stanza con la paura.

Leggi: mi sono chiusa in una stanza con la paura. Ma non puoi tenere la porta o la finestra aperta?Anch'io in questo momento ho paura e il canto di un passero mi dà coraggio, non sono solo in un mondo vuoto, e il mondo non è la mia paura... Perché ti chiudi in una stanza con la paura?

Ieri ho sopportato due attacchi di panico in due ore, una delle quali passata in una farmacia stesa su una poltrona per calmarmi. E’ stato orrendo persino per me che sono abbastanza allenata. Non sono riuscita a mettere in campo gli strumenti abili per calmarmi.

Quali strumenti? Forse non erano abili se non potevano essere usati in quel momento.

Ma poi mi sono calmata un po’, per merito delle dottoresse che mi hanno accolto con umanità, professionalità e senza giudizio, lasciandomi lo spazio di superare la crisi da sola, offrendomi la loro presenza. Mi conoscono da un po', nell'ultimo anno non ci ero più quasi passata, segno positivo. E invece ieri BOOM esplosione! Oggi abbattimento e depressione post attacco. Tipica, un po’ è dovuta alla paura che la grande paura possa riafferrarmi, e un po’ perché sono sfiduciata, perché ogni attacco forte significa non esser ancora guarita. Ambivalenza della guarigione -lo so che questi attacchi possono essere benissimo l'ostacolo che metto fra me e la liberazione.

Forse sì forse no, non lo sappiamo, non è sicuro, non è detto che le ipotesi che sembrano intelligenti siano quelle azzeccate...

Ciononostante, questa consapevolezza non basta a farli cessare.


La consapevolezza non è un’ipotesi. E non riguarda l'interpretazione della paura, è essa stessa nient'altro che ricevere, testimoniare, stare con la paura. Non però trattenerla. 

La dottoressa dice di avere pazienza, e io ci provo.  Ieri è passato, e non sono morta, ciò mi dovrebbe dare fiducia e rendermi meno vulnerabile, comprendo che questi stati, per quanto orribili possano essere, si sgonfiano ad un certo punto da soli, e lo fanno quando si molla la presa, quando si è pronti anche a morire…


Mollare la presa, ma mollarla davvero, proprio quando mollare la presa fa paura, fa temere la morte.. E poi si scopre che non muoriamo...

…perchè non ce la si fa più a tenere il fisico sotto una pressione assurda. All'improvviso abbandonare la lotta equivale a ritornare sulla terra, tornare a respirare e a muoversi liberamente.
La confusione mentale sparisce e gli alberi, il cielo e le persone ritornano ad essere quello che sono, non cose strane che mi urtano dentro e che mi fanno chiudere gli occhi perché non ce la faccio a sopportarli. So di non dirti niente di nuovo. Ma  c’è altro: a farmi più paura di tutto è il senso di solitudine. Ho paura a stare da sola con la mia paura, è per questo che cerco sempre di condividerla, di parlarne, di cercare pareri. Ma da un po' di tempo mi sono resa conto che questi sono palliativi, o meglio hanno già sortito i loro effetti positivi e ora non aggiungono niente, semmai tolgono molto. Mi tolgono la fiducia in me stessa, mi fanno apparire debole agli occhi degli altri, e rendono me stessa identificata con questi stati mentali. Tutto questo per la paura di restare da sola nella stanza con la mia paura e con la mia depressione.
I palliativi fanno parte della paura: invece, le dottoresse che invitano alla pazienza, no.

Io non voglio passare tutta la mia vita così, non ce la posso fare, sono sfinita.

Nessuno ha parlato di 'tutta la vita', e poi non sappiamo quanto lunga sarà la nostra vita, e può darsi che proprio lasciare andare davvero questa paura sia il compito, del resto prezioso, di tutta una vita..

Sono anni che lotto strenuamente, che mi impegno a condurre un lavoro che dovrebbe portarmi a vivere una vita migliore. Eppure ci sono ancora giornate come ieri, ed è inutile nascondere il mio sconforto: mi sento punto e a capo.


Non mi sembra tu apprezzi abbastanza l'importanza di liberarti dalla paura! Pensa a quelli che passano la vita a creare e diffondere la paura..

Oggi ho meditato e ho visualizzato la mia paura, me stessa e la stanza. A volte si acquatta in un angolo lei, a volte io, a volte siamo di fronte e quasi sempre ha la meglio lei.


Più che meditazione mi sembra un giocare a nascondino o acchiapparella: altro che lasciarla andare... Magari se ne andrebbe pure ma tu fai di tutto per trattenerla…
Mi è sembrato che non ho scampo, che è necessario che quando si presenta io resti da sola con la paura, che non cerchi consolazioni o vie di uscita. Questo smentisce subito tutto, ma ho bisogno di sapere se è una via giusta da percorrere, se ce la posso fare a restare da sola con questa immensa paura. Vorrei che mi abbandonasse, ma sembra che sia io a dover abbandonare lei.

Proprio così! Non ti abbandonerà se non hai pazienza, se la trattieni quando sta per andarsene, se sei ancora in cerca di palliativi, se non sai ancora come fare per lasciarla andare... E in special modo se coltivi attaccamento alle sensazioni che ti regala la sua presenza. Devi essere tu ad abbandonare lei, a restare nel tuo territorio, a non allontanartene, e per questo occorre pazienza e ancora pratica.


 

domenica 17 febbraio 2013

The Ferry Boat

 
 
In December 1993, I embarked on a month-long journey through India; a period which turned out to be both inspiring and auspicious. It was then I gained confidence in the fact that I could write poetry - a discovery not completely unexpected, especially as the poems were in English. I later translated some of the poems into Italian and they were published in my first book of poetry, Mutuazioni e sconnivenze: Orpheus, Dhrupad, A lie, The Same Band, The Gardener, and also the The Ferry Boat, reproduced below, and posted on this same blog a few days ago in its Italian translation, Il traghetto. Instead, other poems like Tiruvannamalai, Mamallapuram, Old Friends, were not translated at that time.

I have since come to believe that the deepest wells of the unconscious were then unavailable to me in Italian. I had practiced English intensively in the Eighties while living in San Francisco and had, once back in Italy, what in a previous poem, "In a Foreign Language", I came to recognize as my first taste of "pure water and stone". And now, in India, the practice of meditation - inside the room where Ramana Maharshi had passed away, in the ashram at the feet of the sacred mountain Arunachala, where the great sage had lived - softened and replenished my spirit. Throughout the Indian journey, words arose easily and comfortably, pointing with clarity to obscure and remote conditionings of body and mind - and they were once again English words, words uttered in a "foreign language".

"The Ferry Boat" was written in a house with a green lawn in Jor Bagh, New Delhi, home to Maurizia, where dhrupad masters, like Fariddudin Dagar, and musicians and dancers such as Buddhadheb Chattopadaya would gather and play together. Outside, the road opened up in a circle around a big tree under whose shadow a group of young women ironed shirts and trousers from dawn to sunset when, in the incoming darkness, they slid away.


 

The Ferry Boat

 
Without breaking a wave
No hiss or noise
While in deep sleep plunged
One still feels yards of water
above the breast
Comes the Ferry Boat
of dawn

 
Awaken - in the silence
distinctively one guesses the kiss
reluctant flung to the pier
Awaken - one sifts through the sleep
the small seeds of change
 
 
 
 
 
 

venerdì 15 febbraio 2013

La locanda


Questo essere umano è una locanda
Ogni mattina un nuovo arrivo.

Una gioia, una depressione, una meschinità,
Una momentanea consapevolezza arriva
Come un visitatore inaspettato.

Accoglili e intrattienili tutti!
Anche se con loro arrivano in folla i dispiaceri,
Anche se con violenza
Vi portano via tutti i mobili di casa vostra
Trattate ugualmente ogni ospite con rispetto
Potrebbe far spazio in voi
A qualche nuova gioia.

Accogliete sulla porta, con un sorriso
I pensieri cupi, la vergogna, la malizia,
E invitateli a entrare

Siate grati per chiunque arrivi
Perché tutti vi sono stati mandati
Come guide dall’aldilà.

Jelaluddin Rumi (1207-1273)







mercoledì 13 febbraio 2013

La verità


lunedì 11 febbraio 2013

Lettera dall'ansia


Forse ci si salva con un respiro.

Oggi ho avuto una manifestazione non piacevole chiamata attacco di panico. Non ne sapevo nulla.  Sono stata al Pronto Soccorso e dopo 5 ore assieme ad una umanità dolente e interrotta e rotta ho scoperto di non avere apparentemente malattie organiche.

Ma...allude il medico che dice di non conoscermi forse...ansia.

Io comunque non riuscivo più a camminare e semplicemente mi volevo mettere a terra e togliermi i pantaloni per liberarmi dal senso di oppressione e dolore al cuore e mancamento.

Bisognerebbe respirare e amare la vita.

 
 
 
 
 
 

sabato 9 febbraio 2013

Shan

 
 
 
 
 



Shan (Montagna) è la tua casa-base, non il prossimo "Everest" che devi scalare!
La tua montagna è la tua cima e la roccia delle tue fondamenta.
Ritornare e ritornare di nuovo, a casa.

da Quantum Soup di Chungliang Al Huang, Celestial Arts



giovedì 7 febbraio 2013

So che non so




Attraverso la consapevolezza intuitiva, facciamo attenzione a come sono le cose, rendendocene pienamente coscienti, perché in realtà non siamo consapevoli di molta parte della vita. Possiamo renderci conto di come il condizionamento della mente ci predisponga a fare l’esperienza delle cose solo attraverso certe percezioni; quando le cose non rientrano nella nostra sfera di esperienza, nel nostro modo di percepirle, tendiamo a non notarle. Un essere umano molto condizionato è qualcuno che sperimenta la vita attraverso le condizioni che ha acquisito, tende a vedere e a interpretare la vita attraverso i presupposti, le distorsioni, le percezioni che gli sono propri e che ha acquisito a causa del suo condizionamento sociale e culturale.
Ecco perché un condizionamento etnico molto conservatore, o un approccio alla vita essenzialmente fondamentalista, si basano sulla convinzione che una certa condizione è la sola giusta e ciò con cui non sono d’accordo viene liquidato come sbagliato, come qualcosa di eretico, di alieno, come il nemico. Abbiamo, dunque, paura di ciò che è straniero, alieno, o diverso, o di quello che non conosciamo, l’ignoto, l’incerto, l’estraneo; molti vogliono liberarsi di tutto questo, vogliono espellerlo o evitarlo.
Chi vive la sua vita in modo molto conservatore si sente minacciato da qualsiasi genere di comportamento inusuale, lo considera anormale ed estraneo e teme i valori alieni, perché sono aspetti ignoti nella sua vita, e nel suo condizionamento culturale c’è una sorta di certezza in cui si aspetta che le cose rientrino, che confermino la sua visione della vita, per poter essere d’accordo e accettarle.
Quando vivevo in Thailandia, notavo che alcuni occidentali, a causa della diversità di condizionamento, del linguaggio diverso, della differenza climatica, alimentare, della grande diversità culturale dalla società europea, erano presi dal panico, dalla paura, perché erano entrati in contatto con condizioni ed esperienze diverse per qualità da ciò a cui erano abituati, lo chiamavano ‘shock culturale’.
Lo stesso vale per gli approcci fondamentalisti alla religione: avvicinandoci alla fine del millennio, al periodo apocalittico, che presenta aspetti sconosciuti e incerti, diventano sempre più popolari le religioni fondamentaliste, i modi di vedere l’esperienza in termini rigidi, dove siamo tutti d’accordo che le nostre percezioni sono quelle giuste, e che tutto quello che non vi rientra è sbagliato.
Volerci sentire sicuri, avere la sensazione di sapere esattamente cos’è bene e cos’è male, cos’è vero e cos’è falso, come qualcosa che ci viene dato dall’esterno, è uno degli aspetti umani che più abbiamo in comune, quando i tempi diventano più incerti e l’ignoto ci spaventa. Talvolta proviamo una forte tentazione a far parte di qualche organizzazione, dove ci si dica esattamente come vestirci, cosa dire, come comportarsi, come pensare e dove, in certo modo, ogni cosa è per noi già predisposta nella maniera accettabile e non resta che adattarvisi: tutto questo crea un senso di sicurezza.
La sensazione di non sapere, l’insicurezza, l’incertezza sono condizioni della mente che cominciamo a riconoscere, quando ci apriamo alla consapevolezza intuitiva. Usiamo perfino metodi, modi per sviluppare la capacità di non conoscere. In alcune forme di buddhismo Zen ci si pongono deliberatamente domande impossibili, a cui non c’è risposta. O in alcuni insegnamenti Vedanta si usano domande quali: "Chi sono io?". Un approccio in cui continui a chiederti: "Chi sono?". O si viene posti in situazioni in cui la sicurezza e la certezza della propria vita sono spazzate via e per sopravvivere puoi contare solo sulla capacità intuitiva della mente.
È una realizzazione importante contemplare il futuro come ignoto, sapere che il futuro è l’ignoto, che non si sa. Per esempio, fatevi la domanda: "Chi sono?". Cosa succede? La mente pensante si arresta. Vi chiedete: "Chi sono io?" e si crea un vuoto, non è vero? C’è un’interruzione nella nostra mente pensante che si ferma. Sono consapevole di questa specie di vuoto, quando finisce la domanda e si avverte il vuoto. E investo di consapevolezza questo vuoto, voglio conoscere questo vuoto nel pensiero, in cui il pensiero non è presente, ma c’è questa sorta di spazio. Dopo quel vuoto, la mente pensante ricomincia: "Be’, sono Ajahn Sumedho", o qualcosa del genere, ma questo lo so già, quello che cerco non è una risposta, voglio essere consapevole di quel vuoto, di quello spazio.
È un modo per imparare realmente a essere consapevoli, per accogliere quella sorta di vacuità della mente, in modo che il non pensiero venga registrato dalla coscienza.
Un altro modo è porsi la domanda: "E poi? Che altro?". E la mente pensante si ferma. Non mi interessa veramente cosa ci sarà dopo, cosa succederà, quello che mi interessa è l’arrestarsi della mente pensante, il vuoto, in modo da poterlo registrare, da notarlo: è così, così è fatto il non pensiero. E allora lo conservo nella consapevolezza intuitiva, nella coscienza. Questa pratica ci permette di riconoscere, di essere pienamente consapevoli e coscienti di quando il pensiero si ferma, degli spazi tra le parole, del silenzio alla fine della domanda, e della sensazione di dubbio e di incertezza da cui si è sorpresi, dell’insicurezza, di tutti gli stati mentali che ci procurano la sensazione di non sapere, in cui il pensiero non funziona più, ma la consapevolezza opera ancora.
Anche il suono del silenzio è un altro modo per arrivare allo stesso scopo, in quanto ci si sintonizza sul suono primordiale, cosmico, metafisico e il processo del pensiero si ferma quando si riposa in questo stato di attenzione. Riguardo al suono del silenzio, è importante dargli significato, perché per alcuni è solo un ronzio nelle orecchie. E un ronzio nelle orecchie non sembra molto importante, sembra piuttosto qualcosa di cui ci vorremmo disfare. O per cui conviene andare dal dottore. Se lo sperimentiamo come un ronzio nelle orecchie, finisce per diventare un disturbo, finiamo per sentirci infastiditi o ostili. Il suono del silenzio ha spesso ispirato la poesia dei Sufi. Non ricordo se fosse Rumi o Kabir che ha descritto, in una poesia, il suono del silenzio come lo scintillio di un milione di stelle. È stato chiamato la voce di Dio o il flauto di Krishna. O gli si può attribuire un nome più scientifico come la soglia dell’udibilità.
Quando lo prendiamo in considerazione in modo più poetico o in termini positivi, gli attribuiamo un significato, qualcosa di cui ricerchiamo la compagnia, qualcosa a cui diamo valore.
da "So che non so" del Ven. Ajahn Sumedho, © Ass. Santacittarama, 2010, discorso tenuto a Morlupo il 1 novembre 1999

[Ajahn Sumedho è nato a Seattle, USA, nel 1934. Nel 1967 fu ordinato monaco a Nongkai, nel nord-est della Thailandia. Per dieci anni ha praticato con Ajahn Chah, maestro della tradizione della foresta, poi si è trasferito in Gran Bretagna, dove, nel 1979, fondò il monastero di Cittaviveka. Nel 1984 ha poi fondato il monastero di Amaravati, dove ha risieduto per 26 anni. Attualmente vive in Thailandia.]


martedì 5 febbraio 2013

Il traghetto


 
Senza spezzare l’onda
non un sibilo non un rumore
mentre sprofondato nel sonno
senti ancora leghe d’acqua sul cuore
arriva il traghetto dell’alba
di cui non conosci il colore

Sveglio -nel silenzio
distintamente indovini il bacio
riluttante lanciato al molo
Sveglio -setacci nel primo lucore
i piccoli semi del cambiamento

 

da Mutuazioni e Sconnivenze di Michele Colafato, Edizioni Il Labirinto, 2005

sabato 2 febbraio 2013

Lettera dalla meditazione


E' una scintilla che sprigiona nel contatto tra un desiderio di conoscenza e un disagio, allora magari proviamo a fare un passo in più. C’è sempre un motivo, una qualche mancanza che vogliamo colmare, un qualcosa da capire più a fondo, qualcosa che sfugge, dal punto di vista della comprensione di sè, e c'è un disagio intimo. E nasce la scintilla: forse questa pratica può offrire delle risposte.. Perché poi non abbiamo in quel momento gli strumenti per cercare di migliorare noi stessi e, come dire, se stai bene con te stesso stai bene anche con gli altri, il discorso è quello, quando si vuole cambiare e non sai come cambiare, o almeno io non lo sapevo, allora il fatto che ci possa essere una pratica, che abbraccia tutti gli aspetti della vita quotidiana, tutte le azioni, che ci siano indicazioni su un percorso, mamma mia! Una possibilità concreta, capisci?


Quando comprendiamo che esistono degli strumenti abili per essere in un contatto profondo e continuo con la nostra condizione, che possiamo vivere non separati dalla nostra vita, dalla nostra esperienza, e non siamo condannati alla confusione e all’impotenza, quello è un momento di gioia, stiamo entrando, pur tra mille difficoltà incertezze e fatica, in una dimensione umana, nella completezza della realtà dell’uomo.