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domenica 21 febbraio 2016

Attenzione e vita





Senza attenzione la vita non sarebbe davvero vissuta ma scorrerebbe via tra abitudini e conformismi. Attraverso l'esercizio paziente dell'attenzione che, nonostante la corrente avversa delle distrazioni, mi riporta al presente posso cercare di dare uno sguardo dall'interno alla mia vita. Quando perdo il filo dell'attenzione occorre che ritorni ad essa. Tutto quello che mi viene incontro in ogni momento di attenzione è in quel momento la mia vita. Non posso arrivare ad apprezzarla se non offro la mia attenzione.
Se mi distraggo ho delle possibilità di ritornare al momento presente: la gratitudine per un giorno di sole o per una camminata, la parola data o ricevuta da un amico, la generosità nei confronti di chi mi chiede ascolto, la pazienza per una incombenza faticosa, il raccoglimento nel silenzio, la meditazione nella quale prescindo da ogni risultato utile e testimonio con il mio essere presente il momento presente...
Talvolta però dimentico che attenzione non è riservata a quel che mi piace, ai momenti gradevoli: ancora più importante per creare coraggio ed equanimità è l’attenzione quando illumina il momento che stride, che infastidisce, che non piace. E che non va cacciato via perchè la vera attenzione è a quello che c'è così com'è. Il resto è compiacenza.

E' un passo importante inciampare nella pietra del non mi piace, mantenere l'attenzione aperta a quello che non mi piace e sentirne il sapore, sentire com’è.

E’ importante perché  comporta l'esperienza diretta del fatto che le sensazioni nascono e muoiono e di essere noi stessi vulnerabili e di passaggio. Una esperienza che può aprire la porta non all’indifferenza e alla negatività bensì alla fiducia, alla compassione e a una iniziale consapevolezza di essere connessi con l’intero universo.




sabato 13 febbraio 2016

Empatia e arroganza. Una lettera





Difficile non è essere gentili e simpatetici con chi sta modestamente al suo posto e con lui non si è tentati dalla rabbia e presi dall’emozione dell’offesa al proprio onore e stato, ma per condiscendenza e sicurezza nella propria superiorità. Mentre è difficile esserlo con gli arroganti, gli avidi, che sono mossi, o così pare, da autocentratezza e da egoismo e ti chiedi perché dovresti piegarti alle loro richieste o pretese, perché dovresti inchinarti o dire di sì, un inchino o un sì che giovano a che cosa, a chi?

Ma il giudizio impedisce di essere con l’altro. Qualunque tipo di giudizio, di superiorità, di inferiorità e anche il confronto. Il giudizio serve l’identificazione non la connessione o il contatto con l’altro.

Quando non siamo identificati, non reagiamo con il tono sdegnato, l’irritazione, il fastidio che indicano proprio l’identificazione, quella reazione propria dell'io-mio ferito, e allora l’eventuale arroganza, avidità, invadenza altrui, dalle quali siamo distaccati, non ci sembreranno così gravi serie importanti e cadranno per terra e noi saremo in grado di rispondere in maniera adeguata alle nostre proprie premesse.
Quando non c’è identificazione e attaccamento c’è spazio per la consapevolezza e il discernimento e se messi di fronte all’arroganza, o all’ invadenza di pretese brutali o richieste insinuanti, facciamo in maniera semplice e  distaccata presente: “questo non è possibile” (oppure, con leggera, ma molto leggera, ironia: “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” o “mi appello al Quinto Emendamento”) e siamo pienamente contenti di questa risposta senza quell’attaccamento al sapore, al gusto, al profumo dell’indignazione, del sarcasmo, della rivincita verbale o della sfuriata.


Infine, la persona benintenzionata ma priva di una pratica quando è stretta tra l’arroganza altrui e l’amor proprio talvolta ricorre al ragionamento e fa delle concessioni ma poi se ne rammarica. Per ragionamento intendo qualcosa come cercare nella propria esperienza delle giustificazioni per l’altro. Questo può anche essere utile, per esempio può portarci al punto di comprendere l’ansia o la paura nell’altro ed essere più indulgenti, ma non basta, perché quel che fa la differenza è l’identificazione, e in presenza di identificazione lo sforzo di comprensione è non solo limitato ma sempre revocabile. L’io magari offre tolleranza e comprensione ma sbotta subito dopo per qualcosa che avverte come "francamente eccessivo".





domenica 16 novembre 2014

La felicità, per Sharon Salzberg



 
 
 
Definisco la felicità come un tipo di pienezza di risorse. E’ un senso di resilienza e l’abilità a incontrare le cose senza esserne determinati. E’ una sorgente di profonda forza interiore, che non sempre siamo consapevoli di avere.
Felicità è, anche, connessione l’un con l’altro, così che non ci sentiamo tagliati fuori e isolati.

["I define happiness as a kind of resourcefulness (tr./ pienezza di risorse, intraprendenza, ingegnosità, inventiva). It’s a sense of resiliency (tr./ resilienza, elasticità, flessibilità, capacità di recupero) and the ability to meet things without being defined by them. It’s a source of profound strength inside ourselves, which we don’t always realize we have. Also, happiness is our connection to one another, so we don’t feel so cut off and alone."]