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domenica 3 aprile 2016

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Sai qual è il fondo della solitudine?
A volte mi metto in cucina,
apro un filo la porta-finestra
per far uscire il fumo del sigaro
nelle tenebre fredde, apro un libro,
subito lo richiudo. Apro la mano,
ci guardo dentro e d’improvviso
mi viene una maledetta voglia di piangere.
Senza perché. Non è tanto il fatto
di aver voglia di piangere, no,
è questa la risposta.

di Sauro Albisani  da La valle delle visioni, Passigli, 2012











domenica 6 aprile 2014

Lettera dall'oscurità





Oggi è una di quelle giornate disperate in cui la depressione mi fa vedere tutto nero. Mi toglie la forza di fare qualsiasi cosa, so che dovrei reagire, ma mi sento così schiacciata e oppressa e sola che riesco soltanto a vedere tutto nero e non ho neanche la forza di meditare.
Mi chiedo quanto può durare questo stato, che mi pare senza via di uscita, so che passerà, ma intanto mi spaventa. Mi chiedo allora cosa può veramente succedermi e di cosa ho paura, e se sono codarda io nel non volerne uscire fuori o se devo solo sopportare e avere fiducia che passerà.
Spesso però mi è successo che quando decido di prendere di petto le situazioni, di impasse, di nero totale, o di paura, riesco solo a peggiorare le cose.
Mi sento come se camminassi su un burrone e che posso precipitare da un momento all'altro.
Forse sarei più tranquilla a vederla diversamente, e cioè che nel burrone ci sono già, che non posso andare più giù ma posso solo aspettare, senza paura e con fiducia, che tornino le forze per la risalita.
Il punto è proprio lavorare per non lasciarmi travolgere dalla paura e dalla sfiducia. Ma non mi sento obbligata a  uscire di casa se non ne ho voglia o a fare qualcosa di concreto. Può essere utile, mi rendo conto, ma per ora non ne sono capace.
In periodi così mi identifico totalmente con quello che sento, ne sono consapevole ma non riesco a trovare la MIA via per lasciar andare un po' di più.
Davvero non c'è altro da fare che osservare questa identificazione totale e accettare la sofferenza che provoca? Cioè, può bastare?

"Veramente, non c'è altro da fare che accettare la sofferenza?"
Finché aggredisco il buio e l'oscurità con il desiderio che finiscano portandosi via sofferenza, isolamento, depressione, le mie energie sono bloccate da questo sforzo e l'universo mi si chiude addosso. Invece, l'accettazione del buio, dell'oscurità, del nero, senza riserve, senza se e senza ma, il dire sì, l’accettare di toccare il fondo, stiamo quanto più rilassati possiamo nella condizione  in cui siamo, respiriamo essendo presenti, questa accettazione aperta dischiude uno spiraglio alla luce e all'inaspettato che alberga in noi stessi e che aspetta questa apertura per manifestarsi.
Non so se questo può "bastare", come dici tu.
Ma, bastare a che cosa?

"Essere quanto più rilassati nella condizione in cui siamo" è una frase che sento vera e buona per me, perchè mi calma subito,  perchè non ha pretese e perchè mi dice che va bene anche così.
Sento che devo praticare su questo e con questo.  

In una poesia di David Whyte (che ho letto citata da Frank Ostaseski) si dice:

"La notte ti darà un orizzonte
più lontano di quanto tu non riesca a vedere.
Qualche volta ci vogliono l'oscurità e
la dolce prigionia della tua
solitudine per imparare
che qualunque cosa o chiunque
non ti renda vivo
è troppo piccolo per te."




venerdì 29 novembre 2013

Lettera dalla generosità


 

Il rimedio alla solitudine e alla mestizia, il farmaco creato in proprio che cura e guarisce, il ritrovato alchemico che non presenta controindicazioni, ha due componenti. Il primo è la generosità, il secondo è il coraggio - poiché del resto la generosità è una forma di coraggio, di apertura ‘nonostante’ tutto, di disponibilità non necessariamente e non subito contraccambiata, di fiducia verso un frutto che non è ancora maturo nè conosciuto, possiamo dire che la generosità già contiene in sé una buona dose di coraggio.

Offrire quello che si ha, quello che si può, quello che si è esperienziato direttamente, essere generosi di attenzione, di ascolto, di presenza, di tempo, di sostegno, di contentezza, di buonumore, di collaborazione è essere in relazione. Ecco perché la prima forma di generosità è la benevolenza amorevole per gli altri e per se stessi, non infierendo su di sé con i sensi colpa e i rimpianti, che ci amareggiano e ci isolano e dividono dagli altri.

Se riflettiamo sui nostri stessi timidi passi e stentate esperienze nell’ ‘altro’ mondo della generosità, capiamo come questa pratica rappresenti una conversione rispetto a condizionamenti e comportamenti che fin da piccoli abbiamo considerato, e tuttora consideriamo, ‘naturali’ e che sono una delle cause determinanti del nostro isolamento: la tendenza a vedere tutto attraverso il prisma del proprio ‘io’, per cui ‘naturalmente’ ci aspettiamo che il ‘mio’ sia il centro del mondo, e che anche persone depresse, affaticate, afflitte o malate si mettano al servizio nostro, delle nostre aspettative e comodità, dai genitori ai parenti, figli, amici, maestri, studenti, conoscenti…

La generosità ha la precedenza assoluta su altre medicine e palliativi, quali l’analisi riguardo alle origini della solitudine che soffriamo, il cercare di svagarsi per non pensarci troppo o anche la ricerca di compagnia -infatti la ricerca di compagnia che non si accompagna alla generosità e al discernimento non può che essere ‘a termine’, e il conforto che arreca è dipendente dalla presenza fisica di “altri”.

La generosità, anche se inizialmente faticosa, ha un dinamismo che dà sollievo e incoraggia nel cammino. Inoltre aiuta a non impantanarsi in quelle ricerche meramente intellettuali o concettuali che declinano spesso in circolo vizioso e senza buonuscita.
 


 
 

venerdì 22 novembre 2013

Lettera della solitudine (o dell'accordatore di pianoforti)





Mentre parlavo con una mia amica della solitudine mi sono chiesta chissà se anche dopo molti anni di pratica capita di sentirsi soli? Sai questa cosa del sentirsi a casa quando ci si siede in meditazione mi fa pensare al fatto che a volte nonostante tutto mi capita di sentirmi sola e non dipende né da quanta gente c'è intorno a me né da quanti amici abbia né da quanto possa compensarmi l'amore dei miei cari. E’ una sensazione ancestrale di solitudine e mi chiedo, perché la si prova? E’ un senso di incolmabile vuoto interiore che sento a volte anche sedendo in meditazione che però non ha modo di essere o meglio: se mi sento a casa quando medito o quando respiro profondamente in silenzio perché mi accade questo sentire interiore? Ti capita mai o ti è capitato? 

 


Talvolta possiamo avere aspettative e ideali di pienezza che non reggono alla prova della vita quotidiana che non manca di ostacoli, dissesti, incertezze.

Col passare degli anni, per parte mia, sono venuto via via apprezzando le avversità, gli scombinamenti, le buche nella strada, ho scoperto che hanno l’effetto di rendermi sobrio, di irrobustirmi, di farmi guardare per terra,  dove metto i piedi, di calmare i picchi di euforia e moderare gli idealismi, e anche di rendermi più disponibile agli altri ed equanime verso quello che viene. Mi consentono di nutrire meno illusioni e di essere più accogliente verso la vita così com’è. Mi sono reso conto che la vita umana è così, ci sono dei momenti in cui ci sentiamo soli, ciascuno di noi ha questa esperienza, ed è così.

Non credo alla possibilità che l'esperienza dell’uomo possa essere priva di momenti di solitudine, di smagliature, di disorientamento. In me sono venute meno certe riserve e pretese nei confronti della vita e nei confronti degli altri.

Nello stesso tempo quando sono tutt’uno con quello che faccio, quando l’attenzione non si distacca dall’azione, qualunque essa sia, allora non mi sento solo. Se sono attento, consapevole, nell’organismo corpo-mente, quando sono presente, sia nella meditazione seduta sia nella varie occasioni della vita quotidiana, non mi sento attaccato dalla solitudine, so di essere solo ma non mi sento isolato, abbandonato o reietto. Mi pare allora che, con tutte le sue solitudini e le sue sofferenze, la vita umana possa essere una buona vita e che offra tante occasioni per renderla apprezzabile.

Ma non so se parliamo delle stesse cose. Può darsi che abbiamo bisogno reciprocamente di capire meglio quello che intendiamo.

Qualche giorno addietro ho fatto una passeggiata con Dave Thomas, un amico, accordatore di pianoforti, che è venuto a trovarmi da Exeter, nel Devon, Sud-Ovest dell’Inghilterra, ci siamo conosciuti più di venti anni fa, frequentando John Garrie che è stato maestro di entrambi, gli ho citato la tua lettera e mi ha detto due cose.

La prima è che anche lui, come tutti, si sente solo talvolta, e che invecchiando siamo più esposti alla solitudine.

La seconda è che lui distinguerebbe tra "aloness", l'essere soli, termine che può esprimere anche una maturazione personale, cioè il riconoscere e il poter tollerare che si è di fatto soli in certi momenti e situazioni, da "loneliness", il sentirsi soli, il sentirsi isolati, o addirittura abbandonati.

Ma, al di là dei concetti che hanno una funzione indicativa, per quanto mi riguarda trovo che la pratica dell’attenzione mi ha aiutato a distinguere tra la realtà e gli echi (riverberi, ventate, e contagi di solitudine) e anche a tollerare e apprezzare quell'essere soli che è una dimensione fisiologica e formativa della vita umana. E, in un certo senso, a praticare come... un accordatore di pianoforte, che accorda i pianoforti in rapporto al loro stato attuale di conservazione e d'uso, e operando al meglio con i mezzi abili che conosce e di cui dispone.
 
 
 
 

venerdì 1 novembre 2013

A fil di sonno


 

 

Mi chiedo se non ci voglia ancora la capacità del silenzio e ancora prima

spogliarsi nudi alla gentilezza

quella danza a fil di sonno che tutto allarga schiara di una luce sola

solitudine compresa

cantarne la gioia

placare la furbizia dell’alba

di Paola Febbraro, da Stellezze,  LietoColle,  2012

 

Paola Febbraro è nata a Marsciano, in provincia di Perugia, e ha vissuto e lavorato a Roma fino alla morte, nel maggio del 2008.
In "Fammi restare con te lavorìo del mondo" (nella raccolta del 2001, La rivoluzione è solo della terra) sono versi gioiosi e unitivi i versi di Paola che dicono, rivelatori: "porta via da me questo non fare questo credere di non stare facendo", e dunque: "non darmi queste ultime parole: rovinami tu!" Versi veri, il "credere di non stare facendo" è una falsa credenza, fondamenta dell'ignoranza e dell'isolamento dell'io nella sua prigione cognitiva, rappresentativa, concettuale, sia essa autoamministrata sia supposta nell'amministrazione sociale.
Perchè anche quando crediamo di esserne fuori o ai margini siamo nel "lavorìo del mondo", un pensiero attento partecipe, una parola attenta presente ce lo rivela, anche inaspettatamente: sei, sei con il lavorìo del mondo..
Non ci si stanca di ascoltare e di capire la poesia di Paola, con l'orecchio teso al disvelarsi di inedite estensioni del suo suono, e del proprio udito.
In "A fil di sonno" i suoni si imprimono nel cuore, con una loro qualità ispiratrice, che mette seme in solchi di cui saggiano il dissodamento e la profondità.
Invitano a esplorare “la capacità del silenzio” e “la gentilezza che tutto allarga schiara”a chi, ancor prima, si sia spogliato nudo..
"Raramente capita di incontrare tanta immediata purezza di intenzioni espressive -ha scritto Marcella Corsi di Paola- tanta aderenza al ritmo, spezzato e insieme naturale, dell’esistenza degli umani di sesso femminile, e un linguaggio poetico così capace di rendere quello che il corpo sa nella sua interezza di intuito, concretezza, intelligenza."