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domenica 8 luglio 2018

La cosa più importante







“Tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita.”
Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi

sabato 28 ottobre 2017

Un insegnamento






“Non si può insegnare agli altri ciò che non si è vissuto di persona.”


Evagrio il Pontico (345-399 d.C.)





















domenica 5 marzo 2017

Tesoro interiore







Non c’è nulla che si debba cercare di ottenere attraverso qualsivoglia forma di privazione, punizione, disciplina o stento. Tutti gli esseri sono essenzialmente Buddha, tutti gli esseri sono Buddha, o Buddhi - illuminati: tutto quello che occorre fare è rendersene conto.

Non si ha il tesoro interiore, si è il tesoro interiore. Quando ci si distacca da questa verità, credendo che la ricerca debba essere perseguita all’esterno nelle attività e negli sforzi, allora si ignora quel tesoro interiore. Questo è il vero significato di ignoranza – non che uno sia offuscato o stupido, ma che stia ignorando la realtà essenziale che è sempre stata presente. E’ questa l’ignoranza che porta alla nascita esseri in una continua ricerca di qualcosa che pensano di dovere ottenere e che essi già sono. (...) Semplicemente respira e lascia che il corpo dimori nella tranquillità e nel rilassamento, e al punto di sentirsi tranquilli e rilassati in ogni attività, che sia camminare o solo essere nella calma in quello che si sta facendo – e nel momento in cui ti senti bene, dì: “Questo è il tesoro”.
di John Garrie, da the way is without flaw





venerdì 24 febbraio 2017

Oltre le prescrizioni ricevute





“Il racconto tradizionale narra del re Śuddhodana a cui nasce un figlio e a cui i brahmani predicono che questo figlio diventerà un monarca universale oppure un grande saggio veggente. Il padre si premura di evitare che questa seconda possibilità si avveri e organizza per il figlio, Siddhārta, una vita di piacere protetta dalla visione e dalla conoscenza degli aspetti negativi della vita. Inevitabilmente, però –come scrive Cristina Pecchia- questo figlio privilegiato viene a contatto con sofferenze di vario tipo in alcune gite fuori dal palazzo. Siddhārta incontra un vecchio, in una successiva uscita un malato, e in una terza un morto. (...) Di fronte all’inquietudine che prende Siddhārta, l’auriga lo esorta a non disprezzare i piaceri dei sensi e anzi a riconoscere l’appagamento dei sensi e la passione amorosa come un bene altissimo; è un invito a identificarsi con il sistema dato dalla tradizione. L’atteggiamento di Siddhārta è controcorrente: un dato conoscitivo, legato alla presa di contatto con la realtà, è fonte di un diverso sguardo sulla realtà tutta e di una profonda inquietudine per le certezze che va a minare...
Siddhārta non si distrae, non fugge, rimane con questa inquietudine e in modo attivo, con un’apertura alla scelta, all’eventuale cambiamento. Esce di nuovo dalla sua città alla ricerca di quiete e per vedere luoghi boscosi; dopo una fase meditativa in cui comprende come tutto sia sofferenza, vede un asceta itinerante (śramana) che vive senza possessi in luoghi solitari e che persegue lo stato di libertà dalla sofferenza. Siddhārta decide di farsi asceta itinerante; sceglie di andare fuori dal palazzo, fuori dal ruolo assegnatogli fin dalla nascita, fuori dall’identità propostagli dalla famiglia (il padre) e dalla società (l’auriga), e di intraprendere il percorso śramanico, ricercando nuove guide. Le pratiche di rinuncia di vari asceti non lo soddisfano perché in effetti mirano a raggiungere il cielo e non a superare in modo definitivo il ripetersi dell’atto e dunque la rinascita. Si recherà poi da due maestri che gli daranno insegnamenti molto elevati relativi a pratiche meditative e alla natura della liberazione. Ma anche questi insegnamenti non costituiscono una risposta soddisfacente perché l’abbandono progressivo che dev’essere praticato non arriva all’abbandono di colui che compie le pratiche, ovvero il sé, che potenzialmente può sempre legarsi alla sofferenza. La sua ricerca –puntualizza Cristina-  prosegue oltre le prescrizioni ricevute all’interno della sua cultura. Dopo una lunga pratica di digiuno e di rinunce che non trova adatta a raggiungere la liberazione decide di recuperare le forze fisiche necessarie alla mente e accetta il riso offertogli da una donna; ne mangia, si bagna nel fiume, e si incammina verso Gayā, dove la sera riprende la meditazione ai piedi di una ficus religiosa, l’albero della bodhi (risveglio, illuminazione), e raggiunge il Risveglio, diventando un buddha, un risvegliato. Di nuovo una scelta, attraverso un’inquietudine generata da una nuova conoscenza, ha fatto aprire a un’altra scelta, quella di uscire ulteriormente dai tracciati proposti dall’esterno, che fanno accettare la propria identità quanto più essa è costruita secondo quei tracciati: accettare di mangiare riso è infrangere il digiuno, è non contribuire alla costruzione dell’identificazione con il perfetto śramana; ma il fatto di togliere materiale a questa costruzione porta al Risveglio. L’intento è infatti abbandonare qualunque veste l’io assuma e questo può tradursi in adesione o negazione nei riguardi di un’immagine, un ruolo ecc. ai quali in definitiva si attribuisce un valore di realtà.
L’esperienza del Buddha mostra che le parole del maestro, anche quando hanno la forma di istruzioni, di precetti, non possono che valere come indicazioni di percorso, perché la realizzazione di quel percorso, ovvero uscire dall’identificazione con alcunché, sia pure il modello ascetico, significa non dare più credito all’idea di io, né concettualmente né emotivamente. Il punto in cui ciò accade si trova sperimentando; se, quando e quanto riso mangiare è cosa che nessun maestro può dire e si può decidere soltanto attraverso una pratica rivolta a decostruire l’io, non a esaltarlo o mortificarlo. Si dice per esempio nel Suttanipāta:

I saggi chiamano vincolo quella visione in base alla quale si vede il resto come inferiore. Perciò un bhikku (monaco) non dovrebbe dipendere da niente che abbia visto, udito o pensato, né da una condotta virtuosa, né da voti.

Una visione, una dottrina, una pratica, alla quale si aderisce può diventare fonte di dipendenza, vincolo che restringe all’ambito del positivo ciò che la costituisce e relega al livello inferiore ciò che è diverso da essa”.


da C.Pecchia, Scegliere il Buddha come maestro, in Maestri (a cura di M.Colafato), FrancoAngeli editore









sabato 29 ottobre 2016

L'offesa al maestro










Dice Levinas: ‹‹ L’offesa fatta al maestro è diversa da qualsiasi altra. Ma l’altro non è sempre, in un grado qualunque, vostro maestro?››

da Quattro letture talmudiche, il melangolo










domenica 24 aprile 2016

Ognuno di noi è un cercatore...





“Non ci sono dubbi che ognuno di noi è un cercatore, in ognuno di noi c’è il desiderio di scoprire, di comprendere. Spesso la tendenza a porsi domande o a cercare di capire nasce in noi già in età molto giovane e ci spinge a domandarci: “Che cos’è la vita? Con quale scopo sono su questa terra? Quali sono i valori per me più profondi?” 
Poi, mano a mano che diventiamo adulti, perdiamo il contatto con la freschezza di queste domande, perché siamo tanto impegnati a cercare le risposte che ci dimentichiamo che la ricchezza è nella ricerca stessa, nel mistero, non nelle risposte. 
Grazie alla fiducia e alla fede è possibile riconquistare questo senso di innocenza che appartiene all’infanzia, dove l’interesse non risiedeva nelle giuste risposte, ma piuttosto nel guardare con curiosità e meraviglia la vita intorno a noi. 
Come cercatori possiamo risvegliare in noi quella semplicità che ci sostiene nell’aprirci al mistero della vita stessa.”

di Patricia Feldman Genoud, da SATI anno XXV, n.1 / 2016

[SATI è la rivista dell'A.Me.Co, Associazione per la Meditazione di Consapevolezza]









sabato 19 marzo 2016

Insegnamenti semplici ma non dominanti








Vedere lo zazen come “la cosa più onorevole” determina il nostro atteggiamento verso tutta la vita. 
Quale dovrebbe essere la nostra prospettiva? 
Qui di seguito esprimerò al meglio delle mie possibilità ciò che il Maestro Kōdō Sawaki impresse nella mia mente:

·       Guadagnare è un’illusione, perdere è realizzazione.
·       Non cercare di ottenere alcun beneficio. Non essere avido; non dispiacerti di perdere.
·       Non istituire mai un’organizzazione. Le cose raggiunte da un’istituzione crolleranno a causa di tale istituzione. (...)
·       Insegna agli individui uno per uno. Invece di formare le persone secondo un modello generale, dobbiamo affrontare ognuno individualmente, dal momento che ognuno è unico.
·       Non chiedere donazioni. (...)
·       Non essere volubile. Non agire spinto dai tuoi pensieri egoistici.
·       Se non starai attento, diventerai famoso e raggiungerai una posizione elevata. Fa’ ogni sforzo per non distinguerti nel mondo. Soprattutto dopo i quarant’anni, la fama e il profitto saranno allettanti.

    Ognuno di questi detti, a prima vista, sembra semplice. 
    Eppure se si osserva da vicino, ci si rende conto che non sono gli insegnamenti dominanti in questo mondo. 
    Sawaki rōshi non solo insegnava queste parole, ne era un esempio vivente.
      
      di Kōshō Uchiyama, da Kōdō il Senza Dimora, Ubaldini











domenica 28 febbraio 2016

Primavera





Benché stia nevicando senza posa
all’entrata della valle montana
l’usignolo (uguisu) canta
“La primavera è già arrivata”


Questo waka di Dōgen è ambientato all’inizio di primavera a Eiheiji, “quando è ancora freddo, cupo e nevica”.
“Dopo un lungo inverno -commenta Shōhaku Okumura- la gente anela alla primavera. All’improvviso un usignolo comincia a cantare, annunciando che la primavera è qui. Questo uccellino è l’unico segno di primavera nel mondo. Tuttavia pur nello scenario invernale, la primavera è già qui.
Sawaki rōshi ha interpretato la poesia come una metafora dell’insegnamento di Dōgen Zenji dell’unità di pratica e realizzazione, di samsāra e nirvāna. Dentro l’inverno, la primavera già esiste. Dentro la primavera, l’inverno resta. Primavera e inverno pervadono l’un l’altro. Questo è il modo in cui pratichiamo da bodhisattva. Anche quando destiamo la bodhicitta (mente del risveglio) e pratichiamo il buddha-dharma, siamo pur sempre ordinari esseri umani con egocentrismi e delusioni. Tuttavia nella nostra pratica degli insegnamenti del Buddha, il corpo di Dharma del Buddha si manifesta. La nostra pratica qui e ora è il canto dell’usignolo.”

da Zen of Four Seasons: Dogen Zenji’s Waka, traduzioni dal giapponese in inglese e commenti di Shōhaku Okumura







sabato 6 febbraio 2016

Le benedizioni dell'universo




Il maestro zen Kōdō Sawaki ha detto:

Il cielo e la terra fanno doni. Aria, acqua, piante, animali ed essere umani fanno doni. Tutte le cose fanno doni le une alle altre. E’ solo in questo reciproco donare che possiamo vivere. Che lo riconosciamo o no, è così.


Senza dover chiedere “Dammi!”, facciamo o riceviamo doni. Il mondo in cui doniamo e riceviamo doni è un mondo sereno e bello. Si differenzia dal mondo della lotta per appropriarsi delle cose. E’ vasto e sconfinato.

da Kōdō il Senza Dimora, Ubaldini Editore, 2015








sabato 30 gennaio 2016

Il viaggio





E quando sarai arrivato
alla fine del viaggio
incontrerai te stesso
non un tuo sogno o un ideale
e avrai ripreso confidenza
con  le tue dita e vorrai continuare
a camminare in tua compagnia
per molti altri anni
come fossero un giorno                                      

Quando siamo in uno stato mentale piacevole, in una buona disposizione, possiamo essere portati d’impulso ad arricchire e abbellire il momento presente, e magari troviamo lo slancio poetico, come nei versi che precedono.
Quando invece siamo in uno stato d’animo depresso, abbattuto, ci capita di percepire il momento presente spoglio e disadorno come una condanna e un destino e lo subiamo chiudendoci nel mutismo o costruendo un muro di negatività.
Il viaggio nel reale è fatto di tanti momenti che si susseguono, piacevoli, spiacevoli, neutri. 
“Quello che gradualmente impariamo -dice la Maestra Pema Chӧdrӧn- è di non allontanarci dall’essere completamente presenti. Abbiamo bisogno di addestrarci a questo livello di base perché la sofferenza è molto diffusa nel mondo. Se non ci addestriamo centimetro per centimetro, un momento alla volta, a superare la nostra paura della sofferenza, saremo molto limitati nella nostra capacità di aiuto. Saremo limitati riguardo all’aiutare noi stessi e limitati riguardo agli altri. Perciò cominciamo con noi stessi, così come siamo, qui e ora.”






sabato 23 gennaio 2016

Qualche suggerimento pratico per essere più felici




1° Lavorare a una correzione della nostra vista. Ciò significa in primo luogo domandarci se per caso non sia unilaterale soffermarci tanto sul negativo che vediamo in noi stessi, negli altri e nelle situazioni. Oggi in Occidente questa è una tendenza piuttosto diffusa e condivisa. (...) Continuando a evocare la consapevolezza il più spesso possibile...cominceremo a essere meno incantati da questa attrazione per il negativo, che poi a volte è una vera e propria costruzione del negativo. (...)
2° Fin a quando non lavoreremo seriamente alla nostra felicità non comprenderemo l’importanza della felicità, per noi stessi e per chi si trova intorno a noi. Attenzione: essere più felici rende possibile dare felicità. (...) Il che potenzia ulteriormente la felicità. E’ difficile, se non si intraprende questa via, toccare con mano come il diventare più felici sia l’esito di un processo di maturazione e di crescita.
3° Addestrarsi ad apprezzare il positivo, anche se piccolo.
4° Imparare ad accettare gli eventi della vita, positivi e negativi, ricordandosi che accettazione non è passività. Per esempio accettare che Tizio è aggressivo nei nostri confronti è, anzitutto, un passo verso la chiarezza: non cerchiamo di ignorare o rimuovere la cosa. Sarà più facile, poi, esercitare la fermezza e il dissenso, lasciando cadere l’impulso a essere reattivi. Infatti la nostra reattività accrescerebbe soltanto l’elemento aggressivo nell’altro. E’ utile inoltre, tenere a mente che aggressività e rabbia nascono dalla sofferenza e producono sofferenza.
5° Imparare a cogliere l’ingenuità di certe prese di posizione. Per esempio ‘non mi interessa la felicità’; piuttosto ‘mi interessa la saggezza’ oppure: ‘mi interessa lo studio’; oppure ‘mi interessa lavorare’. (...) Tuttavia è molto probabile che Tizio, Caio e Sempronio diano un significato superficiale alla parola felicità, superficialità certamente inadatta a definire la soddisfazione che viene dalla saggezza, dallo studio o dal lavoro.
6° Vedere quanto siamo esperti e abili nel coltivare l’infelicità. Abbiamo già considerato l’incantesimo che il negativo esercita su di noi. A tale proposito conviene anche allenarsi a vedere come il rimpianto del passato -che non tornerà- sia un altro modo di coltivare l’infelicità, e così anche riguardo al timore del futuro, futuro che spesso si rivela diverso da quello che ci aspettiamo. (...)
7° In generale si può dire questo: coltivare il Bene va verso la felicità e ci andrà tanto più, quanto più impariamo a coniugare serietà e tocco leggero.

di Corrado Pensa, SATI, Anno XXIV n.3, settembre/dicembre 2015



domenica 20 dicembre 2015

Sorridere







"Sorridere a voi stessi -ha detto Thich Nhat Hanh- è un atto molto gentile nei vostri confronti, perchè state soffrendo e quando soffrite avete bisogno di amore. 
Voi siete la prima persona che può offrirvelo,  non aspettate che sia un'altra a farlo."

Se non siamo gentili e sorridenti con noi stessi, la nostra capacità di perseguire il bene è gravemente compromessa. Possiamo facilmente essere travolti dalle preoccupazioni e dalla negatività. Quando sorridere a noi stessi è più difficile a causa della sofferenza, proprio allora dobbiamo esercitarci a praticare il sorriso. Ecco che ci sentiamo subito più tranquilli e l'orizzonte si rasserena.








domenica 13 dicembre 2015

Otis e il vecchio studente





Un vecchio studente venne da Otis e disse: “Sono stato da un gran numero di Maestri e ho rinunciato a un gran numero di piaceri. Ho digiunato, sono rimasto celibe e ho passato le notti vegliando alla ricerca dell’illuminazione. Ho rinunciato a tutto quello a cui mi è stato chiesto di rinunciare e ho sofferto ma non ho raggiunto l’illuminazione- cosa dovrei fare?
Otis replicò: “Rinuncia alla sofferenza.”

da Taliaris Newsletter, anno 1995





















venerdì 23 ottobre 2015

Amo gli occhi tuoi, amica mia









Martyska



Nella scena finale del film di Andrej Tarkovskij, la figlia di Stalker, Martyska, è seduta davanti a un tavolo dal ripiano di marmo, con gli occhi sul libro che regge tra le mani.
S’ode il fischio di una locomotiva.
Vagano nell’aria piccoli fiori bianchi, forse lanugine, o neve?

Martyska poggia il libro sulle ginocchia e recita a memoria, mentalmente, la poesia di Fëdor Ivanovič Tjutčev (1803-1873):

“Amo gli occhi tuoi, amica mia,
il loro gioco, splendido di fiamme,
quando li alzi all'improvviso
e, con un fulmine celeste,
guardi di luce tutt'intorno.

Ma c'è un fascino più forte:
gli occhi tuoi rivolti in basso,
negli attimi di un bacio appassionato
e, fra le ciglia semichiuse,
del desiderio il cupo e fosco fuoco.”

Martyska volge gli occhi alla finestra.
Poi li riporta sul tavolo e con lo sguardo spinge un bicchiere facendolo scivolare.
Si ode mugolare il cane che ha seguito Stalker dalla Zona.
Martiska lo guarda. Riprende a spingere il bicchiere con gli occhi fin quasi all’orlo del tavolo.

Infine, appoggiata la testa sul tavolo, si concentra su di un altro bicchiere e lo spinge con lo sguardo fino a farlo cadere sul pavimento. 







venerdì 25 settembre 2015

Se l'ami abbastanza




Miti di tutto il mondo dicono di uomini e donne in cerca dell’elisir che protegga dalla sofferenza. La risposta del buddhismo è la consapevolezza. Come funziona la consapevolezza? Lasciatemi illustrare con una storia che divenne la base per il film del 1988 “Gorilla nella nebbia”. Il film racconta di Dian Fossey, una coraggiosa biologa ricercatrice sul campo che riuscì a farsi amica una tribù di gorilla. Fossey era andata in Africa sulle orme del suo mentore George Shaller, un famoso biologo dei primati che era ritornato dalla foresta con informazioni sulla vita dei gorilla più profonde e cogenti di qualsiasi altro scienziato prima di lui. Quando i suoi colleghi gli domandarono come era riuscito ad apprendere dettagli così rimarchevoli circa la struttura tribale, la vita familiare e le abitudini dei gorilla, egli l’attribuì a una semplice cosa: non portava con sé un fucile.
Precedenti generazioni di biologi erano entrati nel territorio di questi grandi animali presupponendo che fossero pericolosi. Così gli scienziati venivano con uno spirito aggressivo, con grandi fucili in mano. I gorilla potevano sentire il pericolo intorno a questi uomini con i fucili spianati e se ne tenevano a lunga distanza. Al contrario, Shaller -e più tardi la sua studentessa Dian Fossey- entrarono nel loro territorio senza armi. Dovevano muoversi lentamente, con gentilezza, e soprattutto con rispetto nei confronti di queste creature. E, col tempo, sentendo la benevolenza di questi umani, i gorilla gli permisero di venire proprio in mezzo a loro e imparare i loro modi. Sedendo immobile, ora dopo ora, con sollecita, paziente attenzione, Fossey finalmente capì quello che vedeva. Come spiegò il saggio afro-americano George Washington Carver: “Qualunque cosa rilascerà i suoi segreti se l’ami abbastanza.”

Jack Kornfield







mercoledì 12 agosto 2015

Un vecchio trave





Lavoravamo sulla facciata della casa e notammo che il pergolato di sostegno al glicine era storto, si era abbassato da un lato e rischiava di cedere. Bisognava estrarre i pali di sostegno e i vecchi travi dal muro e sostituirli.

Tirando via da parte uno di questi travi di castagno, consunto e fradicio, ebbi a dire: "Com'è brutto!"

Il maestro replicò con calma: "E' stato bello pure lui..."

Restai a bocca aperta.

Quanta compassione e quanta saggezza in questa espressione!

E quanta ispirazione in una frase semplice e non pretenziosa...

Tirai un respiro di sollievo. Anche se il lavoro era duro quelle parole lo avevano reso leggero, la fatica restava ma come un dato di integrità dell’esperienza.






lunedì 22 giugno 2015

ORGOGLIO! Un insegnamento di John Garrie






Quello che segue, ti assicuro, è molto più una riflessione di tipo auto-analitico che un attacco a te, lettore, chiunque tu sia che leggi. Se realizzi nella lettura che è come se io ti stessi reggendo uno specchio di fronte -sappi che quanto segue risulta in primo luogo dalle mie personali realizzazioni seguenti all’essermi seduto davanti allo stesso specchio (credimi -nella sofferenza) per qualche tempo. Sono stato e ho fatto tutte queste cose che seguono.
Invito alla compassione per il lettore e per lo scrittore.

 

L’orgoglio è essenzialmente un tratto che si sviluppa e ha le sue radici nell’adolescenza, o prima. Si può persino dire che l’orgoglio è un guardiano dell’autocentratezza ed è chiaramente molto molto folle perché in definitiva è molto auto-distruttivo. Ci induce a una logica distorta e prevenuta e quindi a percorsi che con maggiore chiarezza mai prenderemmo in considerazione.

Perché? Perché una delle principali caratteristiche dell’orgoglio è che prima di tutto crediamo o abbiamo bisogno di credere che abbiamo ragione o che non abbiamo mai torto, e subito dopo sviluppiamo una inflessibilità di attitudine che non consente di cambiare mai idea, basata com’è sulla credenza che cambiare idea sia una inusuale debolezza alla quale mai soccombere, rivelando così l’immensa vulnerabilità dell’orgoglio e le cocciute e provocatorie emozioni che l’accompagnano.

Sono sicuro che la psicologia avrà chiare spiegazioni di precoci deprivazioni di affetto o rispetto o anche attenzione per dar conto dell’orgoglio in anni seguenti. Forse. Personalmente preferisco guardare a quello in cui si mette orgoglio o a quello di cui si è orgogliosi. Quello che si sente di aver superato o almeno eguagliato o da quali standard ci si sente ancora intimiditi o ridotti all’autocommiserazione o a bravate che accrescono l’ego o a decisioni “potenti”.

I modelli di ruolo sono ovviamente molto influenti in questo campo... Ma i reali modelli di ruolo sono quelli intuitivamente percepiti o ‘sentiti’ da un ragazzo di 6 o 7 anni.

A 6 o 7 anni i confini di percezione, comprensione e ‘sentire’ non sono chiaramente definiti e tendono a fondersi in un conoscere che spronerà spesso un bambino nell’urgenza di far bene, di brillare, o a spiccare in qualche area che ha a che fare con rispetto, affetto, o attenzione; o egualmente nel caso opposto. Questo impulso o la sua assenza detterà la personalità come si sviluppa nel periodo della crescita, educazione inclusa, in quello che emerge a 14-15 anni nell’adolescenza. La secchiona, il somaro, il ribelle, il cocco dell’insegnante, il/la precocemente sexy, il respinto, il militante, l’atleta, lo zerbino, oppure occasionalmente un misto di tutti o parte dei positivi e di tutti o parte dei negativi. E in tutti questi o in qualunque combinazione ci sarà la veemenza dell’orgoglio con la forza impulsiva propria dei primi giorni e una forte appiccicosa riluttanza a cambiare o a consentire lo sviluppo di modi più maturi.

Sarebbe primitivo dar la colpa ai genitori. Sto dicendo che quello che un ragazzo percepisce, raccoglie o a cui reagisce, è qualcosa nei genitori di cui essi -i genitori- sarebbero piuttosto ignoranti, presi dalle loro negoziazioni con i propri partner o con le proprie coscienze per la propria felicità, pur rendendo omaggio a parole all’idea di essere buoni, amorevoli, premurosi e responsabili genitori e modelli di ruolo- che per lo più, a livello esteriore, essi sono. Quanto il ragazzo riceve e a cui reagisce è piuttosto differente.

Che cosa un ragazzo sta cercando di provare dimostrandosi “bravo”, sempre primo o tra i primi nella sua classe, eccellente negli sport? O con l’essere conflittuale o ribelle con i genitori o gli insegnanti, o attraente per l’altro sesso, e che significa attraente in questo contesto? Pochi sono nati con eccezionale bellezza fisica o del viso, il resto della “attrattività” consiste di accessibilità, disponibilità, determinazione e “proiezione” di personalità. A quell’età io ero ben lontano dall’essere in alcun modo attraente. Il mio viso, collo, spalle erano orribilmente coperti da acne -foruncoli, bolle, ascessi. Per fortuna ero un corridore veloce e bravo a cricket -così mi sono specializzato e con il sostegno della rabbia ottenni la mia rivincita sui diffusori di nomi ingiuriosi e i molti rovesci che sopportavo -ma solo in parte. Divenni socialmente “presentabile” solo a 18 o 19 anni.

Probabilmente quello che sto chiedendo è “Quali misure siamo portati a prendere per assicurare la nostra sopravvivenza o esistenza in quanto identità che sia riconoscibile in mezzo a quella che spesso è una competizione davvero formidabile?”

L’orgoglio è essenzialmente reattivo: è una risposta a qualche stimolo o emozione, e mentre è inizialmente difensiva o auto-protettiva può facilmente diventare, e spesso diventa presunzione e si trasforma in arroganza, insensitività, o ciecamente compulsiva autocentratezza.

Ripeto è un gioco emozionale molto molto folle e in ultima istanza autodistruttivo.

Orgoglio è come scavare compulsivamente dentro un fosso nel mentre si cerca di venirne fuori -ed è azione totalmente futile e votata all’autoseppellimento da cui ci si può salvare soltanto saltando fuori dal fosso. Non c’è letteralmente futuro nell’orgoglio!

Posso sentire le obiezioni adesso. Quelli che dicono che l’orgoglio nei risultati o nei propri standard morali o sociali è degno di ammirazione etc., ma certo quello di cui stiamo parlando è semplice auto-rispetto. Orgoglio in verità è auto-rispetto che è tracimato in un stato nuovo, se non pienamente patologico.

Attenzione ai sintomi dell’orgoglio - essi trasformano nature gradevoli e davvero amabili in persone che diventano socialmente inaccettabili e spesso pericolose, perché i confini si confondono e la filosofia morale si distorce.

Triste a vedersi! Abbi compassione per l’orgoglio ma se hai qualche rispetto per la vittima dell’orgoglio -non condonarlo mai. Un secco calcio nel sedere è spesso più affettuoso che un mazzo di rose - e in definitiva di maggior valore.

Non puoi comprare l’orgoglio -affrontalo! Negli altri e soprattutto in te stesso.

E buona fortuna.

di John Garrie (1923-1998), da  Newsletter from Kemps, May 1997

martedì 16 giugno 2015

Amicizia





In una newsletter leggo i versi di Ryōkan che mi ricordano Drew, amico di pratica, artista, costruttore di case e fotografo (autore del bellissimo "Man with Fire in the Belly"):


Buoni amici e maestri eccellenti..

restagli vicino!

Ricchezze e potere sono sogni fuggevoli

ma le parole sagge profumano il mondo

per anni

da Ryōkan, Gocce di rugiada su una foglia di loto


A causa di preoccupazioni e difficoltà possiamo finire "imprigionati" dentro un'ansa cieca  dove tutto rimbomba si contorce e sembra senza scampo. Allora è d’aiuto essere nelle vicinanze di qualcuno che ci aiuti a dubitare della oggettività e assolutezza delle sensazioni e percezioni mentali che in tali condizioni, anche a causa di precedenti condizionamenti, ci stringono e ci tolgono spazio e respiro.

Che cosa e chi meglio di un amico?! Che potremmo mai desiderare di meglio?