“Il racconto tradizionale narra del re Śuddhodana a cui nasce un figlio e a cui i brahmani predicono che questo
figlio diventerà un monarca universale oppure un grande saggio veggente. Il
padre si premura di evitare che questa seconda possibilità si avveri e
organizza per il figlio, Siddhārta, una vita
di piacere protetta dalla visione e dalla conoscenza degli aspetti negativi
della vita. Inevitabilmente, però –come scrive Cristina Pecchia- questo figlio
privilegiato viene a contatto con sofferenze di vario tipo in alcune gite fuori
dal palazzo. Siddhārta incontra un vecchio, in una successiva uscita un
malato, e in una terza un morto. (...) Di fronte all’inquietudine che prende
Siddhārta, l’auriga lo esorta a non
disprezzare i piaceri dei sensi e anzi a riconoscere l’appagamento dei sensi e
la passione amorosa come un bene altissimo; è un invito a identificarsi con il
sistema dato dalla tradizione. L’atteggiamento di Siddhārta è controcorrente: un dato conoscitivo, legato alla
presa di contatto con la realtà, è fonte di un diverso sguardo sulla realtà tutta
e di una profonda inquietudine per le certezze che va a minare...
Siddhārta non si distrae, non fugge,
rimane con questa inquietudine e in modo attivo, con un’apertura alla scelta, all’eventuale cambiamento. Esce di nuovo
dalla sua città alla ricerca di quiete e per vedere luoghi boscosi; dopo una
fase meditativa in cui comprende come tutto sia sofferenza, vede un asceta
itinerante (śramana) che vive senza possessi in luoghi
solitari e che persegue lo stato di libertà dalla sofferenza. Siddhārta decide di farsi asceta itinerante; sceglie di
andare fuori dal palazzo, fuori dal ruolo assegnatogli fin dalla nascita, fuori
dall’identità propostagli dalla famiglia (il padre) e dalla società (l’auriga),
e di intraprendere il percorso śramanico,
ricercando nuove guide. Le pratiche di rinuncia di vari asceti non lo
soddisfano perché in effetti mirano a raggiungere il cielo e non a superare in
modo definitivo il ripetersi dell’atto e dunque la rinascita. Si recherà poi da
due maestri che gli daranno insegnamenti molto elevati relativi a pratiche
meditative e alla natura della liberazione. Ma anche questi insegnamenti non
costituiscono una risposta soddisfacente perché l’abbandono progressivo che
dev’essere praticato non arriva all’abbandono di colui che compie le pratiche,
ovvero il sé, che potenzialmente può sempre legarsi alla sofferenza. La sua ricerca –puntualizza
Cristina- prosegue oltre le prescrizioni
ricevute all’interno della sua cultura. Dopo una lunga pratica di digiuno e di rinunce che
non trova adatta a raggiungere la liberazione decide di recuperare le forze
fisiche necessarie alla mente e accetta il riso offertogli da una donna; ne
mangia, si bagna nel fiume, e si incammina verso Gayā, dove la sera riprende la
meditazione ai piedi di una ficus
religiosa, l’albero della bodhi
(risveglio, illuminazione), e raggiunge il Risveglio, diventando un buddha, un risvegliato. Di nuovo una
scelta, attraverso un’inquietudine generata da una nuova conoscenza, ha fatto
aprire a un’altra scelta, quella di uscire ulteriormente dai tracciati proposti
dall’esterno, che fanno accettare la propria identità quanto più essa è
costruita secondo quei tracciati: accettare di mangiare riso è infrangere il
digiuno, è non contribuire alla costruzione dell’identificazione con il
perfetto śramana; ma il fatto di togliere materiale a questa costruzione porta al
Risveglio. L’intento è infatti abbandonare qualunque veste l’io assuma e questo
può tradursi in adesione o negazione nei riguardi di un’immagine, un ruolo ecc.
ai quali in definitiva si attribuisce un valore di realtà.
L’esperienza del Buddha mostra che le parole del maestro, anche quando
hanno la forma di istruzioni, di precetti, non possono che valere come
indicazioni di percorso, perché la realizzazione di quel percorso, ovvero uscire
dall’identificazione con alcunché, sia pure il modello ascetico, significa non
dare più credito all’idea di io, né concettualmente né emotivamente. Il punto
in cui ciò accade si trova sperimentando; se, quando e quanto riso mangiare è
cosa che nessun maestro può dire e si può decidere soltanto attraverso una
pratica rivolta a decostruire l’io, non a esaltarlo o mortificarlo. Si dice per
esempio nel Suttanipāta:
I saggi chiamano vincolo quella visione in base alla quale si vede il resto
come inferiore. Perciò un bhikku (monaco)
non dovrebbe dipendere da niente che abbia visto, udito o pensato, né da una
condotta virtuosa, né da voti.
Una visione, una dottrina, una pratica, alla quale si aderisce può
diventare fonte di dipendenza, vincolo che restringe all’ambito del positivo
ciò che la costituisce e relega al livello inferiore ciò che è diverso da essa”.
da C.Pecchia, Scegliere il Buddha
come maestro, in Maestri (a cura
di M.Colafato), FrancoAngeli editore
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