Visualizzazione post con etichetta Mente genitoriale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mente genitoriale. Mostra tutti i post

domenica 19 gennaio 2020

La regina d'Africa di Michele Colafato







Cari amici di Tieni aperto,

ho alfine trovato la pazienza e la resistenza per semplificare  il breve racconto in versi che narra della regina d’Africa e della sua reggia ai piedi dell’Aventino.
Ringrazio le amiche e gli amici del gruppo Sentieri e del gruppo Familia che mi hanno sostenuto in varie fasi del lavoro.



  La regina d’Africa

BNP ParisBas trasforma in residenze di pregio
gli inutili uffici di un laborioso passato,
la Banca Nazionale del Lavoro a Piazza Albania
Dalle fatiche che la pubblicità del venditore certifica esclusive
si leva una polvere acre e solerte che offusca la statua equestre di Skanderbeg
il condottiero, e allo straniero nasconde il sudore e l’azzurro del cielo.

Nei pressi della statua vedi in terra una quantità infrantumi di laterizi,
chiazze di ghiaia e pietrisco, mucchi di sanpietrini
Qui e là tra un batter d’ali e sussulti di volo si odono
gli strepiti e le strida di uccelli nervosi e infastiditi nella caccia al cibo dai loro
concorrenti e vicini.

Al di là della strada la regina spintonata fino all’Italia
dalle stesse acque in cui si specchia il corno d’Africa
ha creato all’ingresso della nuova reggia il suo nido
sotto uno spesso telo di plastica per  edili, e lo ha protetto
con un arredo originale di rami, piume, stoffe e asciugamani
donati da mani amiche.

Un giorno, di ritorno dal supermercato, mi fermai a guardarla e finii
per offrirle un cartone di latte e alcuni spiccioli, e lei in diniego
scuotendo sprezzante il capo coronato di stracci variopinti
ribadì la consueta richiesta di cibo scarna e frugale: “Mangiare…mangiare…”
Dentro la borsa della spesa trovai una pesca: “Va bene questa?”
Nel silenzio la regina africana accolse il frutto nelle mani, lo spezzò
in più parti e le distribuì alla cerchia che la scorta, ai corvi e ai gabbiani.

La vidi solo un’altra volta. A due passi dalla pompa della Esso
stava immobile, sbiancata, chiusa e cinturata dentro un borsone più nero
della tempesta che spinge i naufraghi giù negli abissi del pelago insincero
ma dei loro barchini nemmeno uno resta intero.
E la straniera cercando scampo in uno spazio interno
vi aveva eletto per l’ultimo viaggio in questo esilio
il nostro scherno e il proprio tetto.

Poesia inedita 








sabato 21 maggio 2016

L'orto di Francesco






Nel cap.12 di Laudato sì, l’enciclica dedicata da papa Bergoglio alla crisi e alla cura della “casa comune” leggiamo che «san Francesco, fedele alla Scrittura, ci propone di riconoscere la natura come uno splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà... Per questo chiedeva che nel convento si la­sciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbero ammirate potessero ele­vare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza. Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contemplia­mo nella letizia e nella lode
Il riferimento all’orto è tratto da un brano della Vita seconda di San Francesco  (CXXIV, 165: Fonti Francescane 750) di Tommaso da Celano:

 “Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l'albero, perché possa gettare nuovi germogli.
E ordina che l'ortolano lasci incolti i confini attorno all'orto, affinché a suo tempo il verde delle erbe e lo splendore dei fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato.
Vuole pure che nell'orto un’aiuola sia riservata alle erbe odorose e che producono fiori, perché richiamino a chi li osserva il ricordo della soavità eterna.
Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi, perché non siano calpestati, e alle api vuole che si somministri del miele e ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell'inverno.
Chiama col nome di fratello tutti gli animali, quantunque in ogni specie prediliga quelli mansueti.”

Come possiamo leggere questi insegnamenti?
Sulla proibizione di recidere del tutto l’albero. Può indicare rispetto e attenzione per la vita che ne abbraccia le radici. Nelle radici è la condizione della vita. Talvolta ci si accontenta e si ritiene soddisfatti da una conoscenza superficiale delle cose, delle situazioni e delle persone, ma questa è solo ignoranza, con una battuta o uno sguardo si ritiene di esaurire l’esperienza, laddove esperire implica una ripetuta familiarizzazione, dalla quale soltanto può germogliare la vita.
Sull’ordine di lasciare incolti i confini attorno all’orto e di preservare erbe e fiori. E’ una affermazione del primato del bello dei colori dei profumi e del canto libero sull’utile. Senza di che l’orto isterilisce nel calcolo del prodotto e tradisce la sua stessa origine. Lasciare intenzionalmente qualcosa di incolto è importante come un invito alla misura, al non cercare comunque e sempre l’abbondanza, anche a scapito delle condizioni, e soprattutto perché l’incolto non va letto come abbandono ma appunto come apertura e disponibilità a quel che viene indipendentemente dalla volontà e dalle preferenze individuali. La terra (e l’orto, il bosco, l’ambiente della vita) sono anche “casa comune” e non solo o principalmente proprietà privata, e terreno esclusivo dell’io-mio.
Sul soccorso prestato ai vermi e alle api. E’ sostegno alla vita in tutte le sue forme e esercizio di cura e di pazienza. La pazienza è un bene indispensabile e ineguagliabile. Salvare e sostenere la vita di altri esseri con atti ripetuti e pazienti di cura può essere più formativo e salutare di una petizione o una donazione fatta pigiando un bottone. Nel buddhismo mahayanico si parla di una “mente affettuosa del genitore” che l’essere umano ha la potenzialità di portare in tutti i suoi incontri con altri esseri viventi, situazioni, cose.
Sul nome di fratello dato agli altri animali. E’ comprensione che nasciamo da una vita universale, ciascuno di noi è vita, non siamo uguali ma siamo fratelli.

«Lasciare sempre una parte dell’orto non coltivata» può significare che quella parte non deve essere governata secondo la regola del guadagno, del profitto, del risultato, del frutto.
Che c’è una parte in cui non deve dominare la pianificazione e il disegno dell’ “uomo acquisitivo”.
Che quella parte resta aperta all’incontro di terra e cielo, pioggia e vento, sole e luna, aperta a una vita non prefissata dall’interesse materiale. Aperta alla contemplazione, alla meditazione intesa come pratica della bellezza e della verità.

L’orto di Francesco è una trasparente e fertile metafora del vivente, della natura, della società e in particolare dell’essere umano.
L’orto che può essere visto, e sentito, come organismo vivente, e insieme di macro e microorganismi.
L’orto, così facilmente inquinabile, richiama la realtà dell’essere umano e della necessaria consapevolezza di quelle condizioni non salutari che ne pregiudicano la salute, come avidità, rabbia e confusione.
L’orto che va rispettato e curato con presenza e costanza animate da compassione verso gli esseri viventi che ospita, riporta alla realtà di mente-corpo, la cui salute richiede la cura della benevolenza e della compassione verso se stessi.
L’orto ci ricorda che la tecnologia può portare all’estinzione se non è bilanciata da altri tipi di intelligenza.