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sabato 25 maggio 2019

La candela e la luna









Per i saggi, specie quelli indiani, il mondo visibile non è mai stato l'intera realtà, ma solo una parte.
E nemmeno la parte più importante, dal momento che è mutevole e sempre in balia del distruttivo scorrere del tempo.

Eppure, a volte basta poco per rendersi conto anche del resto.
Tagore, il grande poeta bengalese, lo dice con una semplice similitudine.
Una sera è a bordo di una casa galleggiante sul Gange e al lume di una candela legge un saggio di Benedetto Croce.
Il vento fa spegnere la fiamma e improvvisamente la stanza è invasa dalla luce della luna. E Tagore scrive:

La bellezza era tutta attorno a me,
Ma il lume di una candela ci separava.
Quella piccola luce impediva
Alla bella, grande luce della luna di raggiungermi.

La nostra vita quotidiana è piena di piccole luci che ci impediscono di vederne una più grande.
Il campo della nostra mente si è ristretto in maniera impressionante. Così come si è ristretta la nostra libertà. Quello che facciamo è soprattutto reagire. Reagiamo a quello che ci capita, reagiamo a quello che leggiamo, che vediamo alla TV, a quello che ci viene detto. Reagiamo secondo modelli culturali e sociali prestabiliti. E sempre di più reagiamo automaticamente. Non abbiamo il tempo di fare altro. C'è una strada già tracciata. Procediamo per quella.

da "Un altro giro di giostra" di Tiziano Terzani






sabato 13 febbraio 2016

Empatia e arroganza. Una lettera





Difficile non è essere gentili e simpatetici con chi sta modestamente al suo posto e con lui non si è tentati dalla rabbia e presi dall’emozione dell’offesa al proprio onore e stato, ma per condiscendenza e sicurezza nella propria superiorità. Mentre è difficile esserlo con gli arroganti, gli avidi, che sono mossi, o così pare, da autocentratezza e da egoismo e ti chiedi perché dovresti piegarti alle loro richieste o pretese, perché dovresti inchinarti o dire di sì, un inchino o un sì che giovano a che cosa, a chi?

Ma il giudizio impedisce di essere con l’altro. Qualunque tipo di giudizio, di superiorità, di inferiorità e anche il confronto. Il giudizio serve l’identificazione non la connessione o il contatto con l’altro.

Quando non siamo identificati, non reagiamo con il tono sdegnato, l’irritazione, il fastidio che indicano proprio l’identificazione, quella reazione propria dell'io-mio ferito, e allora l’eventuale arroganza, avidità, invadenza altrui, dalle quali siamo distaccati, non ci sembreranno così gravi serie importanti e cadranno per terra e noi saremo in grado di rispondere in maniera adeguata alle nostre proprie premesse.
Quando non c’è identificazione e attaccamento c’è spazio per la consapevolezza e il discernimento e se messi di fronte all’arroganza, o all’ invadenza di pretese brutali o richieste insinuanti, facciamo in maniera semplice e  distaccata presente: “questo non è possibile” (oppure, con leggera, ma molto leggera, ironia: “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” o “mi appello al Quinto Emendamento”) e siamo pienamente contenti di questa risposta senza quell’attaccamento al sapore, al gusto, al profumo dell’indignazione, del sarcasmo, della rivincita verbale o della sfuriata.


Infine, la persona benintenzionata ma priva di una pratica quando è stretta tra l’arroganza altrui e l’amor proprio talvolta ricorre al ragionamento e fa delle concessioni ma poi se ne rammarica. Per ragionamento intendo qualcosa come cercare nella propria esperienza delle giustificazioni per l’altro. Questo può anche essere utile, per esempio può portarci al punto di comprendere l’ansia o la paura nell’altro ed essere più indulgenti, ma non basta, perché quel che fa la differenza è l’identificazione, e in presenza di identificazione lo sforzo di comprensione è non solo limitato ma sempre revocabile. L’io magari offre tolleranza e comprensione ma sbotta subito dopo per qualcosa che avverte come "francamente eccessivo".





sabato 23 gennaio 2016

Qualche suggerimento pratico per essere più felici




1° Lavorare a una correzione della nostra vista. Ciò significa in primo luogo domandarci se per caso non sia unilaterale soffermarci tanto sul negativo che vediamo in noi stessi, negli altri e nelle situazioni. Oggi in Occidente questa è una tendenza piuttosto diffusa e condivisa. (...) Continuando a evocare la consapevolezza il più spesso possibile...cominceremo a essere meno incantati da questa attrazione per il negativo, che poi a volte è una vera e propria costruzione del negativo. (...)
2° Fin a quando non lavoreremo seriamente alla nostra felicità non comprenderemo l’importanza della felicità, per noi stessi e per chi si trova intorno a noi. Attenzione: essere più felici rende possibile dare felicità. (...) Il che potenzia ulteriormente la felicità. E’ difficile, se non si intraprende questa via, toccare con mano come il diventare più felici sia l’esito di un processo di maturazione e di crescita.
3° Addestrarsi ad apprezzare il positivo, anche se piccolo.
4° Imparare ad accettare gli eventi della vita, positivi e negativi, ricordandosi che accettazione non è passività. Per esempio accettare che Tizio è aggressivo nei nostri confronti è, anzitutto, un passo verso la chiarezza: non cerchiamo di ignorare o rimuovere la cosa. Sarà più facile, poi, esercitare la fermezza e il dissenso, lasciando cadere l’impulso a essere reattivi. Infatti la nostra reattività accrescerebbe soltanto l’elemento aggressivo nell’altro. E’ utile inoltre, tenere a mente che aggressività e rabbia nascono dalla sofferenza e producono sofferenza.
5° Imparare a cogliere l’ingenuità di certe prese di posizione. Per esempio ‘non mi interessa la felicità’; piuttosto ‘mi interessa la saggezza’ oppure: ‘mi interessa lo studio’; oppure ‘mi interessa lavorare’. (...) Tuttavia è molto probabile che Tizio, Caio e Sempronio diano un significato superficiale alla parola felicità, superficialità certamente inadatta a definire la soddisfazione che viene dalla saggezza, dallo studio o dal lavoro.
6° Vedere quanto siamo esperti e abili nel coltivare l’infelicità. Abbiamo già considerato l’incantesimo che il negativo esercita su di noi. A tale proposito conviene anche allenarsi a vedere come il rimpianto del passato -che non tornerà- sia un altro modo di coltivare l’infelicità, e così anche riguardo al timore del futuro, futuro che spesso si rivela diverso da quello che ci aspettiamo. (...)
7° In generale si può dire questo: coltivare il Bene va verso la felicità e ci andrà tanto più, quanto più impariamo a coniugare serietà e tocco leggero.

di Corrado Pensa, SATI, Anno XXIV n.3, settembre/dicembre 2015