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sabato 15 febbraio 2014

I cani di Sarajevo





 


Il numero dei cani randagi in Sarajevo ha superato gli 11 mila, secondo i media della Bosnia, e i cani, accusati di aggredire gli uomini e di causare malattie infettive nella capitale della Bosnia-Erzegovina e tra i suoi trecentomila abitanti, sono oggetto di una campagna che mira a cancellare le leggi sulla protezione degli animali, rendendo legale la loro eliminazione 15 giorni dopo la cattura, prima che possano essere adottati o aiutati da organizzazioni per la protezione degli animali.

Due anni fa il giovane regista bosniaco Damir Janacek realizzò un documentario intitolato Kinofil che rivelava l’enorme giro di denaro legato all’uccisione dei cani randagi. Attivisti di SOS Bosnia (una associazione per la prevenzione della crudeltà nei confronti degli animali) parlano nel film delle torture e delle uccisioni di massa dei cani a Sarajevo e del loro proprio calvario per mano delle persone coinvolte in questo massacro, che ricevono un premio per ogni animale abbattuto. Talvolta i cani sono picchiati a morte o subiscono iniezioni di clorina direttamente nel cuore. I cani sono anche uccisi in strada, a colpi d’arma da fuoco, avvelenati o bastonati con mazze da baseball.

Meno di venti anni fa dopo la fine della Guerra e gli accordi di Dayton, le memorie di quelle sofferenze sono ancora vive in Bosnia e Erzegovina -come anche il sentimento dell’assenza di valore della vita umana. Ma -si obietta- se la vita umana è senza valore, come potrebbe riconoscersi valore alla vita di un cane? Certo, la povertà, l’impotenza e il sentimento di non avere futuro contribuiscono alla barbarie: ma perché molti cittadini, persino ragazzi, diventano indifferenti alla brutalità verso i cani?

La risposta non è solo psicologica ma anche fattuale: la società non riconosce colpevoli gli autori di questo massacro e non li punisce perchè le vittime sono animali. In assenza di punizione, la colpa diffonde un specie di infezione che è molto più pericolosa di ogni infezione attribuita alla presenza dei cani randagi -essa infatti crea indifferenza e porta alla disumanizzazione della società.

Kinofil racconta di questa disumanizzazione. E indica nella corruzione e nell’assenza della legge la base della crudeltà. Il destino dei cani randagi sembra una metafora adeguata alla situazione della Bosnia-Erzegovina: se lo stato non funziona a livello dei cani, non può funzionare neppure al livello degli uomini. L’attitudine nei confronti dei cani riflette anche l’attitudine nei confronti di quanti sono deboli, privi di difese, diversi.

da “I cani di Sarajevo” di Slavenka Drakulic (pubblicato su Eurozine Newsletter 02/2014)
Il film "Kinofil" è su YouTube

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In aggiunta, riflettiamo su quanto diceva Sri Nisargadatta Maharaj in una delle conversazioni con visitatori che arrivavano a Mumbai da ogni dove per ascoltarne gli insegnamenti:

“E’ nella natura dell’amore di esprimersi, di affermarsi, di superare le difficoltà. Una volta capito che il mondo è amore in azione, guarderai ad esso in modo diverso. Ma prima deve cambiare la tua attitudine nei confronti della sofferenza. La sofferenza è in primo luogo richiesta di attenzione, che è in se stessa un movimento di amore. Più che felicità, amore vuole crescita, allargamento e approfondimento di coscienza e di essere. (…) Ogni volta che amore viene negato e si permette che la sofferenza si diffonda, la guerra diventa inevitabile. La nostra indifferenza al dolore del nostro vicino porta la sofferenza alla nostra porta.”


"Prima deve cambiare la tua attitudine nei confronti della sofferenza." La sofferenza non può essere regolamentata dalla legge dei pronomi possessivi -la "mia", la "tua", la "nostra", la "loro"- e quando cerchiamo di ricacciare la sofferenza dentro gli steccati dei pronomi possessivi, per tenercene distanti, per controllarla, negando attenzione, "la guerra diventa inevitabile".

Allora "la nostra indifferenza al dolore del nostro vicino porta la sofferenza alla nostra porta", e il nostro vicino è l'essere vivente che chiede attenzione. 



 

sabato 19 gennaio 2013

Il vocabolo "mio"




“Il senso del possesso deve in generale essere incoraggiato.
Gli esseri umani s’inventano continuamente pretese di proprietà che suonano ugualmente ridicole in cielo e nell’inferno, e noi [figli e funzionari di Satana, ndr] dobbiamo mantenerli su questa linea. (…)
Noi riusciamo a produrre questo senso del possesso non soltanto per mezzo dell’orgoglio, ma per mezzo della confusione.
Insegnamo loro a non far caso ai diversi significati del pronome possessivo –alle differenze sottilmente graduate che vanno dalle  “mie scarpe”, attraverso “il mio cane”, “il mio servo”, “mia moglie”, “mio padre”, “il mio padrone”, e “la mia patria”, fino al “mio Dio”.
Gli si può insegnare di ridurre tutti codesti significati a quello delle “mie scarpe”, al “mio” della proprietà.
Perfino nella stanza dei giochi si può insegnare al bambino di voler dire, quando dice “il mio orsacchiotto”, non quel caro oggetto sul quale egli immagina di riversare il suo affetto e con il quale sta in una relazione speciale ma “l’orso che posso fare a pezzi se ne ho voglia”.
E all’altro capo della scala, abbiamo insegnato agli uomini a dire “il mio Dio” in un senso non proprio molto diverso da “le mie scarpe”, cioè “il Dio sul quale ho dei diritti per i miei segnalati servizi e che io sfrutto dal pulpito – il Dio che mi sono accaparrato”.
E lo scherzo consiste nel fatto che per tutto il tempo il vocabolo “mio” in un senso possessivo completo non può essere applicato a nulla, da parte di un essere umano.”

C.S.Lewis, Le lettere di Berlicche, traduzione dall’inglese di Alberto Castelli, 1947, Mondadori  (2012, Oscar Mondadori)
A mezzo di queste lettere Berlicche“funzionario di Satana di grande esperienza istruisce un giovane diavolo apprendista, Malacoda, suo nipote, spiegandogli i mezzi e gli espedienti più idonei per conquistare e per dannare gli uomini.” Clive Staple Lewis (1898-1963) ha insegnato per oltre trent’anni a Oxford lingua e letteratura inglese, amico di J.R.R.Tolkien, è noto a molti come autore dei sette romanzi del ciclo “Le Cronache di Narnia”.