venerdì 29 novembre 2013

Lettera dalla generosità


 

Il rimedio alla solitudine e alla mestizia, il farmaco creato in proprio che cura e guarisce, il ritrovato alchemico che non presenta controindicazioni, ha due componenti. Il primo è la generosità, il secondo è il coraggio - poiché del resto la generosità è una forma di coraggio, di apertura ‘nonostante’ tutto, di disponibilità non necessariamente e non subito contraccambiata, di fiducia verso un frutto che non è ancora maturo nè conosciuto, possiamo dire che la generosità già contiene in sé una buona dose di coraggio.

Offrire quello che si ha, quello che si può, quello che si è esperienziato direttamente, essere generosi di attenzione, di ascolto, di presenza, di tempo, di sostegno, di contentezza, di buonumore, di collaborazione è essere in relazione. Ecco perché la prima forma di generosità è la benevolenza amorevole per gli altri e per se stessi, non infierendo su di sé con i sensi colpa e i rimpianti, che ci amareggiano e ci isolano e dividono dagli altri.

Se riflettiamo sui nostri stessi timidi passi e stentate esperienze nell’ ‘altro’ mondo della generosità, capiamo come questa pratica rappresenti una conversione rispetto a condizionamenti e comportamenti che fin da piccoli abbiamo considerato, e tuttora consideriamo, ‘naturali’ e che sono una delle cause determinanti del nostro isolamento: la tendenza a vedere tutto attraverso il prisma del proprio ‘io’, per cui ‘naturalmente’ ci aspettiamo che il ‘mio’ sia il centro del mondo, e che anche persone depresse, affaticate, afflitte o malate si mettano al servizio nostro, delle nostre aspettative e comodità, dai genitori ai parenti, figli, amici, maestri, studenti, conoscenti…

La generosità ha la precedenza assoluta su altre medicine e palliativi, quali l’analisi riguardo alle origini della solitudine che soffriamo, il cercare di svagarsi per non pensarci troppo o anche la ricerca di compagnia -infatti la ricerca di compagnia che non si accompagna alla generosità e al discernimento non può che essere ‘a termine’, e il conforto che arreca è dipendente dalla presenza fisica di “altri”.

La generosità, anche se inizialmente faticosa, ha un dinamismo che dà sollievo e incoraggia nel cammino. Inoltre aiuta a non impantanarsi in quelle ricerche meramente intellettuali o concettuali che declinano spesso in circolo vizioso e senza buonuscita.
 


 
 

venerdì 22 novembre 2013

Lettera della solitudine (o dell'accordatore di pianoforti)





Mentre parlavo con una mia amica della solitudine mi sono chiesta chissà se anche dopo molti anni di pratica capita di sentirsi soli? Sai questa cosa del sentirsi a casa quando ci si siede in meditazione mi fa pensare al fatto che a volte nonostante tutto mi capita di sentirmi sola e non dipende né da quanta gente c'è intorno a me né da quanti amici abbia né da quanto possa compensarmi l'amore dei miei cari. E’ una sensazione ancestrale di solitudine e mi chiedo, perché la si prova? E’ un senso di incolmabile vuoto interiore che sento a volte anche sedendo in meditazione che però non ha modo di essere o meglio: se mi sento a casa quando medito o quando respiro profondamente in silenzio perché mi accade questo sentire interiore? Ti capita mai o ti è capitato? 

 


Talvolta possiamo avere aspettative e ideali di pienezza che non reggono alla prova della vita quotidiana che non manca di ostacoli, dissesti, incertezze.

Col passare degli anni, per parte mia, sono venuto via via apprezzando le avversità, gli scombinamenti, le buche nella strada, ho scoperto che hanno l’effetto di rendermi sobrio, di irrobustirmi, di farmi guardare per terra,  dove metto i piedi, di calmare i picchi di euforia e moderare gli idealismi, e anche di rendermi più disponibile agli altri ed equanime verso quello che viene. Mi consentono di nutrire meno illusioni e di essere più accogliente verso la vita così com’è. Mi sono reso conto che la vita umana è così, ci sono dei momenti in cui ci sentiamo soli, ciascuno di noi ha questa esperienza, ed è così.

Non credo alla possibilità che l'esperienza dell’uomo possa essere priva di momenti di solitudine, di smagliature, di disorientamento. In me sono venute meno certe riserve e pretese nei confronti della vita e nei confronti degli altri.

Nello stesso tempo quando sono tutt’uno con quello che faccio, quando l’attenzione non si distacca dall’azione, qualunque essa sia, allora non mi sento solo. Se sono attento, consapevole, nell’organismo corpo-mente, quando sono presente, sia nella meditazione seduta sia nella varie occasioni della vita quotidiana, non mi sento attaccato dalla solitudine, so di essere solo ma non mi sento isolato, abbandonato o reietto. Mi pare allora che, con tutte le sue solitudini e le sue sofferenze, la vita umana possa essere una buona vita e che offra tante occasioni per renderla apprezzabile.

Ma non so se parliamo delle stesse cose. Può darsi che abbiamo bisogno reciprocamente di capire meglio quello che intendiamo.

Qualche giorno addietro ho fatto una passeggiata con Dave Thomas, un amico, accordatore di pianoforti, che è venuto a trovarmi da Exeter, nel Devon, Sud-Ovest dell’Inghilterra, ci siamo conosciuti più di venti anni fa, frequentando John Garrie che è stato maestro di entrambi, gli ho citato la tua lettera e mi ha detto due cose.

La prima è che anche lui, come tutti, si sente solo talvolta, e che invecchiando siamo più esposti alla solitudine.

La seconda è che lui distinguerebbe tra "aloness", l'essere soli, termine che può esprimere anche una maturazione personale, cioè il riconoscere e il poter tollerare che si è di fatto soli in certi momenti e situazioni, da "loneliness", il sentirsi soli, il sentirsi isolati, o addirittura abbandonati.

Ma, al di là dei concetti che hanno una funzione indicativa, per quanto mi riguarda trovo che la pratica dell’attenzione mi ha aiutato a distinguere tra la realtà e gli echi (riverberi, ventate, e contagi di solitudine) e anche a tollerare e apprezzare quell'essere soli che è una dimensione fisiologica e formativa della vita umana. E, in un certo senso, a praticare come... un accordatore di pianoforte, che accorda i pianoforti in rapporto al loro stato attuale di conservazione e d'uso, e operando al meglio con i mezzi abili che conosce e di cui dispone.
 
 
 
 

lunedì 18 novembre 2013

Alla tristezza (2)




Il poema di Neruda si apre con una sentita invocazione:
Tristezza, ho bisogno
della tua ala nera,
c’è troppo
sole, miele, sorrisi, topazio, luce rotonda…
L’ “ala nera” di cui il poeta sente di aver bisogno forse aprirà la sua vita a una condizione non dominata dal “troppo” e potrà riportarlo alla pioggia, alla terra, al tronco spezzato nell’estuario, alla luce del lume che si spegne quando la paraffina finisce, alle cose così come sono, che hanno un inizio e una fine.
Neruda ricorda se stesso
alla finestra che guardavo ciò che non era,
ciò che non succedeva
e rimpiange
quella luce nera.
E chiude con un’altra invocazione, una preghiera:
toglimi luce e lascia
che mi senta sperduto e miserabile
e tremi tra le fibre del crepuscolo
Una chiusa che ribadisce il bisogno di essere fuori dal "troppo", di potersi sentire, finalmente!, anche sperduto e miserabile, e tremare, come fibra tra le fibre.

La felicità non ci viene dal "troppo" o dal rifiuto del "poco", né dalla ricerca di gratificazioni.
Possiamo accumulare successi, piaceri, fortune, sensazioni di sicurezza proprie dell’ideologia, e soddisfazioni che arrivano dal rispecchiamento reciproco dei seguaci con il capo e dei fan con la star o del guru con i suoi adepti.
Sono colpito dai versi del poeta cileno che ricordano i giorni in cui guardiamo dalla finestra “ciò che non era, ciò che non succedeva”.
E questo “non essere” quello che sarebbe diventato, questo “non succedere” quel che desideravamo, lo sentiamo semplice e aperto.
Una volta un tale sentimento veniva irriso come non volersi sporcare le mani o voler restare innocenti.
E il verso può essere anche letto come rimpianto del tempo in cui “eravamo poveri e belli”.
Ma forse la poesia ri-guarda la tendenza che abbiamo a ubriacarci di illusioni, a rimpinzarci di questo e di quello, a rifugiarci nell’acquisizione di pseudo-certezze, finché ci risvegliamo e vediamo che l’indulgenza, il “troppo” di topazio e di miele, di pienezza e di luci, ci tiene lontani dalla nostra stessa vita e toglie qualcosa alla spaziosità e alla libertà di quello che è così com’è.
 
 
 
 
 

sabato 16 novembre 2013

Alla tristezza (1)




Tristezza, ho bisogno
della tua ala nera,
c’è troppo sole, troppo miele nel topazio,
ogni raggio sorride
sui prati
e tutto è luce rotonda intorno a me
e tutto, in alto, è come un’ape elettrica.

Perciò
la tua ala nera
dammi,
sorella tristezza:
ho bisogno che si estingua qualche volta
lo zaffiro e che cada
l’obliquo rampicante della pioggia,
il pianto della terra:
voglio
quel tronco spezzato nell’estuario,
la vasta casa buia
e mia madre
che cerca
paraffina
per riempire il lume
finché la luce
non esalava l’ultimo respiro.

La notte era lenta a venire.
Il giorno scivolava
verso il suo cimitero provinciale
e fra il pane e l’ombra
ricordo me stesso
alla finestra che guardavo ciò che non era,
ciò che non succedeva,
e un’ala nera d’acqua che calava
su quel cuore che lì forse
ho scordato per sempre, alla finestra.
Ora, rimpiango
quella luce nera.

Dammi il tuo lento sangue,
pioggia
fredda,
dammi il tuo volo attonito!
Al mio petto
rendi la chiave
della porta chiusa,
distrutta.
Per un minuto, per
una breve vita,
toglimi luce e lascia
che mi senta sperduto e miserabile,
che tremi tra le fibre
del crepuscolo,
che riceva nell’anima
le mani
tremebonde
della
pioggia.

Pablo Neruda


Questa poesia di Neruda me l'ha fatta conoscere Francesco Pieroni, che a un seminario esperienziale sulla poesia come espressione e cura, l'ha presentata con queste parole:
 
“… quasi per fuggire dal mondo troppo brillante attorno a lui, Neruda ritorna a pensare alla sua infanzia, ricordandone l’insicurezza e l’amarezza, e quando sperava in un futuro migliore, un futuro che è arrivato pieno di successi e di amore, ma che non ha portato lo stesso la vera felicità!
Ho trovato questa poesia di Neruda in una piccola, vecchia raccolta, e ne sono rimasto profondamente colpito, perché mi pare molto lontana dalle sue classiche poesie delicate, piene d’amore e di speranza. “Alla tristezza” è una poesia molto inquietante, che racconta un Neruda in crisi esistenziale, un Neruda che mette in discussione tutto ciò che ha fatto. Il poeta vorrebbe quasi liberarsi di quella fastidiosa ‘ape elettrica’ che brilla sopra di lui. Quell’illusione ipocrita che, tra l’altro, si è creato lui stesso.”



sabato 9 novembre 2013

Lettera scritta da un "tambankan"



 
I saggi incoraggiano a non guardare la realtà da un solo punto di vista esclusivo, quale che sia, il padre, il figlio, il maestro, lo studente, il padrone, il lavoratore dipendente, il giustiziere, la vittima, il cristiano, il buddista, il ribelle, il sottomesso, il prodigo, il tirchio, il consumista, l'asceta e così via.
Ma anche quando pensiamo d'essere d'accordo sul diritto all'esistenza di altri punti di vista, spesso il nostro accordo è meramente intellettuale, o strumentale.
Quello che ci manca è proprio l'esperienza sentita dell'accettare il punto di vista altrui, specie nella vita quotidiana in materie che coinvolgono le nostre strategie di comportamento, la generosità, il controllo, la sicurezza, la continuità...
Non si tratta di abiurare o di buttare a mare il nostro punto di vista ma di allentare la presa esclusiva e totalizzante che ha su di noi e sul nostro sguardo.
Soltanto così potremo capire le condizioni particolari che ci hanno portato a far nostro quel punto di vista, o per meglio dire: a farci suo, a subirne il condizionamento, e potremo anche capire dall'interno le nostre inclinazioni e vulnerabilità.
In Cetriolo storto, David Chadwick ricorda che Shunryu Suzuki usava dire: "Dovremmo capire le cose non da un punto di vista soltanto. Chiamiamo  qualcuno che capisce le cose esclusivamente da un lato tambankan. Questa parola letteralmente significa "un uomo che porta una grande tavola sulla sua spalla". Poichè trasporta una grande tavola, non può vedere l'altro lato."
Ricordando questo insegnamento mettendo giù la  "grande tavola" espiro e mi sento più leggero. Espirare ha una sua importanza perchè rende fisica la percezione del cambiamento.




 




 

venerdì 1 novembre 2013

A fil di sonno


 

 

Mi chiedo se non ci voglia ancora la capacità del silenzio e ancora prima

spogliarsi nudi alla gentilezza

quella danza a fil di sonno che tutto allarga schiara di una luce sola

solitudine compresa

cantarne la gioia

placare la furbizia dell’alba

di Paola Febbraro, da Stellezze,  LietoColle,  2012

 

Paola Febbraro è nata a Marsciano, in provincia di Perugia, e ha vissuto e lavorato a Roma fino alla morte, nel maggio del 2008.
In "Fammi restare con te lavorìo del mondo" (nella raccolta del 2001, La rivoluzione è solo della terra) sono versi gioiosi e unitivi i versi di Paola che dicono, rivelatori: "porta via da me questo non fare questo credere di non stare facendo", e dunque: "non darmi queste ultime parole: rovinami tu!" Versi veri, il "credere di non stare facendo" è una falsa credenza, fondamenta dell'ignoranza e dell'isolamento dell'io nella sua prigione cognitiva, rappresentativa, concettuale, sia essa autoamministrata sia supposta nell'amministrazione sociale.
Perchè anche quando crediamo di esserne fuori o ai margini siamo nel "lavorìo del mondo", un pensiero attento partecipe, una parola attenta presente ce lo rivela, anche inaspettatamente: sei, sei con il lavorìo del mondo..
Non ci si stanca di ascoltare e di capire la poesia di Paola, con l'orecchio teso al disvelarsi di inedite estensioni del suo suono, e del proprio udito.
In "A fil di sonno" i suoni si imprimono nel cuore, con una loro qualità ispiratrice, che mette seme in solchi di cui saggiano il dissodamento e la profondità.
Invitano a esplorare “la capacità del silenzio” e “la gentilezza che tutto allarga schiara”a chi, ancor prima, si sia spogliato nudo..
"Raramente capita di incontrare tanta immediata purezza di intenzioni espressive -ha scritto Marcella Corsi di Paola- tanta aderenza al ritmo, spezzato e insieme naturale, dell’esistenza degli umani di sesso femminile, e un linguaggio poetico così capace di rendere quello che il corpo sa nella sua interezza di intuito, concretezza, intelligenza."