Attraverso la
consapevolezza intuitiva, facciamo attenzione a come sono le cose, rendendocene
pienamente coscienti, perché in realtà non siamo consapevoli di molta parte
della vita. Possiamo renderci conto di come il condizionamento della mente ci
predisponga a fare l’esperienza delle cose solo attraverso certe percezioni;
quando le cose non rientrano nella nostra sfera di esperienza, nel nostro modo
di percepirle, tendiamo a non notarle. Un essere umano molto condizionato è qualcuno
che sperimenta la vita attraverso le condizioni che ha acquisito, tende a
vedere e a interpretare la vita attraverso i presupposti, le distorsioni, le
percezioni che gli sono propri e che ha acquisito a causa del suo
condizionamento sociale e culturale.
Ecco perché un
condizionamento etnico molto conservatore, o un approccio alla vita
essenzialmente fondamentalista, si basano sulla convinzione che una certa
condizione è la sola giusta e ciò con cui non sono d’accordo viene liquidato
come sbagliato, come qualcosa di eretico, di alieno, come il nemico. Abbiamo,
dunque, paura di ciò che è straniero, alieno, o diverso, o di quello che non
conosciamo, l’ignoto, l’incerto, l’estraneo; molti vogliono liberarsi di tutto
questo, vogliono espellerlo o evitarlo.
Chi vive la sua vita in
modo molto conservatore si sente minacciato da qualsiasi genere di
comportamento inusuale, lo considera anormale ed estraneo e teme i valori
alieni, perché sono aspetti ignoti nella sua vita, e nel suo condizionamento
culturale c’è una sorta di certezza in cui si aspetta che le cose rientrino,
che confermino la sua visione della vita, per poter essere d’accordo e
accettarle.
Quando vivevo in
Thailandia, notavo che alcuni occidentali, a causa della diversità di
condizionamento, del linguaggio diverso, della differenza climatica,
alimentare, della grande diversità culturale dalla società europea, erano presi
dal panico, dalla paura, perché erano entrati in contatto con condizioni ed
esperienze diverse per qualità da ciò a cui erano abituati, lo chiamavano
‘shock culturale’.
Lo stesso vale per gli
approcci fondamentalisti alla religione: avvicinandoci alla fine del millennio,
al periodo apocalittico, che presenta aspetti sconosciuti e incerti, diventano
sempre più popolari le religioni fondamentaliste, i modi di vedere l’esperienza
in termini rigidi, dove siamo tutti d’accordo che le nostre percezioni sono
quelle giuste, e che tutto quello che non vi rientra è sbagliato.
Volerci sentire sicuri,
avere la sensazione di sapere esattamente cos’è bene e cos’è male, cos’è vero e
cos’è falso, come qualcosa che ci viene dato dall’esterno, è uno degli aspetti
umani che più abbiamo in comune, quando i tempi diventano più incerti e
l’ignoto ci spaventa. Talvolta proviamo una forte tentazione a far parte di
qualche organizzazione, dove ci si dica esattamente come vestirci, cosa dire,
come comportarsi, come pensare e dove, in certo modo, ogni cosa è per noi già
predisposta nella maniera accettabile e non resta che adattarvisi: tutto questo
crea un senso di sicurezza.
La sensazione di non
sapere, l’insicurezza, l’incertezza sono condizioni della mente che cominciamo
a riconoscere, quando ci apriamo alla consapevolezza intuitiva. Usiamo perfino
metodi, modi per sviluppare la capacità di non conoscere. In alcune forme di buddhismo
Zen ci si pongono deliberatamente domande impossibili, a cui non c’è risposta.
O in alcuni insegnamenti Vedanta si usano domande quali: "Chi sono
io?". Un approccio in cui continui a chiederti: "Chi sono?". O
si viene posti in situazioni in cui la sicurezza e la certezza della propria
vita sono spazzate via e per sopravvivere puoi contare solo sulla capacità
intuitiva della mente.
È una realizzazione
importante contemplare il futuro come ignoto, sapere che il futuro è l’ignoto,
che non si sa. Per esempio, fatevi la domanda: "Chi sono?". Cosa
succede? La mente pensante si arresta. Vi chiedete: "Chi sono io?" e
si crea un vuoto, non è vero? C’è un’interruzione nella nostra mente pensante
che si ferma. Sono consapevole di questa specie di vuoto, quando finisce la
domanda e si avverte il vuoto. E investo di consapevolezza questo vuoto, voglio
conoscere questo vuoto nel pensiero, in cui il pensiero non è presente, ma c’è
questa sorta di spazio. Dopo quel vuoto, la mente pensante ricomincia:
"Be’, sono Ajahn Sumedho", o qualcosa del genere, ma questo lo so
già, quello che cerco non è una risposta, voglio essere consapevole di quel
vuoto, di quello spazio.
È un modo per imparare
realmente a essere consapevoli, per accogliere quella sorta di vacuità della mente,
in modo che il non pensiero venga registrato dalla coscienza.
Un altro modo è porsi la
domanda: "E poi? Che altro?". E la mente pensante si ferma. Non mi
interessa veramente cosa ci sarà dopo, cosa succederà, quello che mi interessa
è l’arrestarsi della mente pensante, il vuoto, in modo da poterlo registrare,
da notarlo: è così, così è fatto il non pensiero. E allora lo conservo nella
consapevolezza intuitiva, nella coscienza. Questa pratica ci permette di
riconoscere, di essere pienamente consapevoli e coscienti di quando il pensiero
si ferma, degli spazi tra le parole, del silenzio alla fine della domanda, e
della sensazione di dubbio e di incertezza da cui si è sorpresi,
dell’insicurezza, di tutti gli stati mentali che ci procurano la sensazione di
non sapere, in cui il pensiero non funziona più, ma la consapevolezza opera
ancora.
Anche il suono del silenzio
è un altro modo per arrivare allo stesso scopo, in quanto ci si sintonizza sul
suono primordiale, cosmico, metafisico e il processo del pensiero si ferma
quando si riposa in questo stato di attenzione. Riguardo al suono del silenzio,
è importante dargli significato, perché per alcuni è solo un ronzio nelle
orecchie. E un ronzio nelle orecchie non sembra molto importante, sembra
piuttosto qualcosa di cui ci vorremmo disfare. O per cui conviene andare dal
dottore. Se lo sperimentiamo come un ronzio nelle orecchie, finisce per
diventare un disturbo, finiamo per sentirci infastiditi o ostili. Il suono del
silenzio ha spesso ispirato la poesia dei Sufi. Non ricordo se fosse Rumi o
Kabir che ha descritto, in una poesia, il suono del silenzio come lo scintillio
di un milione di stelle. È stato chiamato la voce di Dio o il flauto di
Krishna. O gli si può attribuire un nome più scientifico come la soglia dell’udibilità.
Quando lo prendiamo in
considerazione in modo più poetico o in termini positivi, gli attribuiamo un
significato, qualcosa di cui ricerchiamo la compagnia, qualcosa a cui diamo
valore.da "So che non so" del Ven. Ajahn Sumedho, © Ass. Santacittarama, 2010, discorso tenuto a Morlupo il 1 novembre 1999
[Ajahn Sumedho è nato a Seattle, USA, nel 1934. Nel 1967 fu ordinato monaco a Nongkai, nel nord-est della Thailandia. Per dieci anni ha praticato con Ajahn Chah, maestro della tradizione della foresta, poi si è trasferito in Gran Bretagna, dove, nel 1979, fondò il monastero di Cittaviveka. Nel 1984 ha poi fondato il monastero di Amaravati, dove ha risieduto per 26 anni. Attualmente vive in Thailandia.]
«Allora capii, dice Socrate, che veramente io ero il più sapiente perché ero l'unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito quegli uomini, che erano coloro che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza presero ad odiare Socrate».
RispondiEliminada Platone, "Apologia di Socrate"
Luca