giovedì 7 febbraio 2013

So che non so




Attraverso la consapevolezza intuitiva, facciamo attenzione a come sono le cose, rendendocene pienamente coscienti, perché in realtà non siamo consapevoli di molta parte della vita. Possiamo renderci conto di come il condizionamento della mente ci predisponga a fare l’esperienza delle cose solo attraverso certe percezioni; quando le cose non rientrano nella nostra sfera di esperienza, nel nostro modo di percepirle, tendiamo a non notarle. Un essere umano molto condizionato è qualcuno che sperimenta la vita attraverso le condizioni che ha acquisito, tende a vedere e a interpretare la vita attraverso i presupposti, le distorsioni, le percezioni che gli sono propri e che ha acquisito a causa del suo condizionamento sociale e culturale.
Ecco perché un condizionamento etnico molto conservatore, o un approccio alla vita essenzialmente fondamentalista, si basano sulla convinzione che una certa condizione è la sola giusta e ciò con cui non sono d’accordo viene liquidato come sbagliato, come qualcosa di eretico, di alieno, come il nemico. Abbiamo, dunque, paura di ciò che è straniero, alieno, o diverso, o di quello che non conosciamo, l’ignoto, l’incerto, l’estraneo; molti vogliono liberarsi di tutto questo, vogliono espellerlo o evitarlo.
Chi vive la sua vita in modo molto conservatore si sente minacciato da qualsiasi genere di comportamento inusuale, lo considera anormale ed estraneo e teme i valori alieni, perché sono aspetti ignoti nella sua vita, e nel suo condizionamento culturale c’è una sorta di certezza in cui si aspetta che le cose rientrino, che confermino la sua visione della vita, per poter essere d’accordo e accettarle.
Quando vivevo in Thailandia, notavo che alcuni occidentali, a causa della diversità di condizionamento, del linguaggio diverso, della differenza climatica, alimentare, della grande diversità culturale dalla società europea, erano presi dal panico, dalla paura, perché erano entrati in contatto con condizioni ed esperienze diverse per qualità da ciò a cui erano abituati, lo chiamavano ‘shock culturale’.
Lo stesso vale per gli approcci fondamentalisti alla religione: avvicinandoci alla fine del millennio, al periodo apocalittico, che presenta aspetti sconosciuti e incerti, diventano sempre più popolari le religioni fondamentaliste, i modi di vedere l’esperienza in termini rigidi, dove siamo tutti d’accordo che le nostre percezioni sono quelle giuste, e che tutto quello che non vi rientra è sbagliato.
Volerci sentire sicuri, avere la sensazione di sapere esattamente cos’è bene e cos’è male, cos’è vero e cos’è falso, come qualcosa che ci viene dato dall’esterno, è uno degli aspetti umani che più abbiamo in comune, quando i tempi diventano più incerti e l’ignoto ci spaventa. Talvolta proviamo una forte tentazione a far parte di qualche organizzazione, dove ci si dica esattamente come vestirci, cosa dire, come comportarsi, come pensare e dove, in certo modo, ogni cosa è per noi già predisposta nella maniera accettabile e non resta che adattarvisi: tutto questo crea un senso di sicurezza.
La sensazione di non sapere, l’insicurezza, l’incertezza sono condizioni della mente che cominciamo a riconoscere, quando ci apriamo alla consapevolezza intuitiva. Usiamo perfino metodi, modi per sviluppare la capacità di non conoscere. In alcune forme di buddhismo Zen ci si pongono deliberatamente domande impossibili, a cui non c’è risposta. O in alcuni insegnamenti Vedanta si usano domande quali: "Chi sono io?". Un approccio in cui continui a chiederti: "Chi sono?". O si viene posti in situazioni in cui la sicurezza e la certezza della propria vita sono spazzate via e per sopravvivere puoi contare solo sulla capacità intuitiva della mente.
È una realizzazione importante contemplare il futuro come ignoto, sapere che il futuro è l’ignoto, che non si sa. Per esempio, fatevi la domanda: "Chi sono?". Cosa succede? La mente pensante si arresta. Vi chiedete: "Chi sono io?" e si crea un vuoto, non è vero? C’è un’interruzione nella nostra mente pensante che si ferma. Sono consapevole di questa specie di vuoto, quando finisce la domanda e si avverte il vuoto. E investo di consapevolezza questo vuoto, voglio conoscere questo vuoto nel pensiero, in cui il pensiero non è presente, ma c’è questa sorta di spazio. Dopo quel vuoto, la mente pensante ricomincia: "Be’, sono Ajahn Sumedho", o qualcosa del genere, ma questo lo so già, quello che cerco non è una risposta, voglio essere consapevole di quel vuoto, di quello spazio.
È un modo per imparare realmente a essere consapevoli, per accogliere quella sorta di vacuità della mente, in modo che il non pensiero venga registrato dalla coscienza.
Un altro modo è porsi la domanda: "E poi? Che altro?". E la mente pensante si ferma. Non mi interessa veramente cosa ci sarà dopo, cosa succederà, quello che mi interessa è l’arrestarsi della mente pensante, il vuoto, in modo da poterlo registrare, da notarlo: è così, così è fatto il non pensiero. E allora lo conservo nella consapevolezza intuitiva, nella coscienza. Questa pratica ci permette di riconoscere, di essere pienamente consapevoli e coscienti di quando il pensiero si ferma, degli spazi tra le parole, del silenzio alla fine della domanda, e della sensazione di dubbio e di incertezza da cui si è sorpresi, dell’insicurezza, di tutti gli stati mentali che ci procurano la sensazione di non sapere, in cui il pensiero non funziona più, ma la consapevolezza opera ancora.
Anche il suono del silenzio è un altro modo per arrivare allo stesso scopo, in quanto ci si sintonizza sul suono primordiale, cosmico, metafisico e il processo del pensiero si ferma quando si riposa in questo stato di attenzione. Riguardo al suono del silenzio, è importante dargli significato, perché per alcuni è solo un ronzio nelle orecchie. E un ronzio nelle orecchie non sembra molto importante, sembra piuttosto qualcosa di cui ci vorremmo disfare. O per cui conviene andare dal dottore. Se lo sperimentiamo come un ronzio nelle orecchie, finisce per diventare un disturbo, finiamo per sentirci infastiditi o ostili. Il suono del silenzio ha spesso ispirato la poesia dei Sufi. Non ricordo se fosse Rumi o Kabir che ha descritto, in una poesia, il suono del silenzio come lo scintillio di un milione di stelle. È stato chiamato la voce di Dio o il flauto di Krishna. O gli si può attribuire un nome più scientifico come la soglia dell’udibilità.
Quando lo prendiamo in considerazione in modo più poetico o in termini positivi, gli attribuiamo un significato, qualcosa di cui ricerchiamo la compagnia, qualcosa a cui diamo valore.
da "So che non so" del Ven. Ajahn Sumedho, © Ass. Santacittarama, 2010, discorso tenuto a Morlupo il 1 novembre 1999

[Ajahn Sumedho è nato a Seattle, USA, nel 1934. Nel 1967 fu ordinato monaco a Nongkai, nel nord-est della Thailandia. Per dieci anni ha praticato con Ajahn Chah, maestro della tradizione della foresta, poi si è trasferito in Gran Bretagna, dove, nel 1979, fondò il monastero di Cittaviveka. Nel 1984 ha poi fondato il monastero di Amaravati, dove ha risieduto per 26 anni. Attualmente vive in Thailandia.]


1 commento:

  1. «Allora capii, dice Socrate, che veramente io ero il più sapiente perché ero l'unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito quegli uomini, che erano coloro che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza presero ad odiare Socrate».
    da Platone, "Apologia di Socrate"
    Luca

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