martedì 24 aprile 2018

Due voci, Sostanza e Vacuità (Sūnyatā)








Quello di sostanza (lat.substantia, gr.hypostasis, hypokeimenon, ousia) è di certo il concetto fondamentale del pensiero occidentale. In Aristotele designa ciò che è stabile in ogni cambiamento. La sostanza è costitutiva dell’unità e dell’identità dell’ente. Il verbo latino substare (letteralmente: stare sotto), da cui deriva substantia, significa anche “resistere”, “sostenere”. Stare viene inoltre usato nel senso di “ritenersi, affermarsi, tenere testa”. Nella sostanza è dunque insita l’attività del persistere e insistere. Essa è il medesimo, l’identico, che insistendo in se stesso si delimita rispetto ad altro e con ciò si afferma. Oltre a “fondamento” o “essenza”, hypostasis significa anche “resistenza” e “fermezza”. La sostanza sta, per così dire, fermamente in se stessa: in essa è inscritta la tensione verso se stessa, l’aspirazione a possedersi. Ousia, nell’uso corrente, vuol dire “patrimonio, possesso, proprietà, tenuta” o “proprietà fondiaria”. La parola greca stasis, poi, non significa solo “stare”, ma anche “rivolta, insurrezione, conflitto, discordia, contesa, inimicizia” e “partito”. Questo atrio linguistico del concetto di sostanza, di certo si basa su un movimento non pacifico o amichevole, lo prefigura in modo congeniale. La sostanza si basa su un movimento di separazione e distinzione; delimita una cosa dall’altra, mantiene ogni cosa nella sua identità con se stessa. La sostanza non è perciò concepita per l’apertura, bensì per la chiusura.

Sūnyatā (vacuità), il concetto centrale del buddhismo, rappresenta per molti aspetti il concetto opposto a quello di sostanza. La sostanza è per così dire piena: essa è ricolma di sé, del proprio (Eigen). Sūnyatā indica invece un movimento di es-propriazione (Ent-Eignung), ovvero svuota l’ente che si ostina in se stesso, che si irrigidisce in se stesso o in se stesso si chiude. Lo immerge in una apertura, in un’aperta vastità. Nel campo della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente su se stesso.

da Filosofia del buddhismo zen, di Byung-Chul Han, edizioni nottetempo










martedì 10 aprile 2018

Nella moltitudine







“Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.

In fondo avrei potuto avere
altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.

Nel guardaroba della natura
c’è un mucchio di costumi: di
ragno, gabbiano, topo campagnolo.
Ognuno calza subito a pennello
e docilmente è indossato
finchè non si consuma.

Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.


Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.

Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.

Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.

Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.

E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?

Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?

La sorte, finora,
mi è stata benigna.

Poteva non essermi dato
Il ricordo dei momenti lieti.

Poteva essermi tolta
L’inclinazione a confrontare.

Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.
Wisława Szymborska