sabato 24 settembre 2016

Einstein e la consapevolezza





In una riflessione sul razzismo nella società degli Stati Uniti d'America la cui adeguatezza nel nostro tempo non necessita di essere richiamata, Albert Einstein ricorda che gli antichi greci avevano schiavi che non erano neri ma bianchi fatti prigionieri in guerra, di conseguenza non si poteva parlare di differenze razziali. Eppure Aristotele li giudicava esseri inferiori che erano stati giustamente sottomessi e privati della loro libertà. 

«E' chiaro -dice Einstein- che Aristotele era invischiato in un pregiudizio tradizionale, dal quale, nonostante il suo straordinario intelletto, non poteva liberarsi».

L'intelligenza non ci mette al riparo dal pregiudizio e dall'avversione, siamo immersi nella tradizione, siamo risucchiati dal passato e i modi di pensare propri del "già conosciuto", come dice Krishnamurti, affermando le loro convenienze, inerzie e paure possono danneggiare "il nostro destino e la nostra dignità".

Infatti più che l'intelligenza e le conoscenze tradizionali, le parole di Einstein richiamano l'importanza della consapevolezza, della sua assenza e della sua presenza, rispetto al "renderci quel che siamo".

«Gran parte del nostro atteggiamento verso le cose è condizionata da opinioni ed emozioni che abbiamo assorbito inconsapevolmente da bambini dall’ambiente esterno. In altre parole, è la tradizione – oltre ad attitudini e qualità innate – che ci rende quel che siamo.
Riflettiamo raramente su quanto l’influenza del pensiero consapevole sul nostro comportamento e sulle nostre convinzioni sia piuttosto debole rispetto al peso potente della tradizione».

Albert Einstein, The Negro Question, 1946








mercoledì 14 settembre 2016

Amorevole benevolenza







Una persona cui sono vicino e che non è ufficialmente su un cammino interiore mi ha donato, senza l’intenzione di farlo, e senza presunzione, una bell’esempio di amorevole benevolenza.
Questa persona mi diceva che stava per andare a un appuntamento con una sua amica che anch’io ho incontrato qualche volta.

-Come fai a sopportarla?

E’ una persona che vedo ogni tanto. Ha la famiglia, i colleghi, sì, eppure è molto sola. E ancora più sola la rende il fatto di non riuscire a lasciar andare l’osservazione che le pare critica nei propri confronti, l’espressione che le suona poco gentile o irrispettosa. Non può dimenticarla ed è costretta a ritornarci sopra, a rimuginare e si isola con i suoi pensieri negativi.

-Capisco. Eppure non riesco a tollerare il fatto che parli a valanga senza lasciarti un minimo spazio...


E’ vero. Al massimo ti fa dire due parole e subito riprende a esternare a ruota libera. Ma io non mi aspetto di essere ascoltata o di svolgere una interessante conversazione. So che ogni tanto chiederà: “E tu che mi dici?”, e che quando avrò pronunciato due parole mi interromperà subito con qualche frase del tipo, “Sai quella lì... Ti ricordi, sì?”, e prima ancora che io risponda sarà già partita di nuovo...

-E allora dov’è la comunicazione?

Infatti non la incontro per quello, lo faccio per benevolenza. Quando non ne posso più mi consento di distrarmi e respiro. La cosa più importante è che lei si senta voluta bene, che non si senta esclusa e rifiutata...




sabato 3 settembre 2016

Amicizia



In una lettera a Lucilio, Seneca si chiede come riconoscere il progresso spirituale e risponde con le parole del filosofo stoico Ecatone: “Ho cominciato a essere amico di me stesso.”

Questa amicizia inizia con “il vedere i difetti prima ignorati”: un vedere che “è indizio di un animo che ha fatto progressi”. Attenzione: ci si riferisce ai propri difetti non a quelli altrui -vedere i quali, magari anche quando non ci sono, è indizio del contrario: di un animo che non ha fatto progressi, e che, si potrebbe aggiungere, continuando così, non li farà mai.

Essere amico di me stesso comprende il non lasciarsi imprigionare dalle preoccupazioni in un cerchio chiuso al cui centro troneggiano l’io e il mio ma piuttosto vedersi come essere vivo, sensibile e attento. Comincio a essere amico di me stesso avendo cura di me. Evito quello che non è salutare, identifico e riconosco i miei stati mentali, le parole che dico, i comportamenti che metto in atto. Inoltre la pratica di questa amicizia mi ricorda di non trascurare per pigrizia o per sfiducia le azioni che mi portano in dono coraggio e forza.

Non per caso Seneca afferma che grande è il progresso di chi si fa amico di se stesso: “Non rimarrà più solo.”


Le citazioni sono tratte da Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Rizzoli