martedì 18 giugno 2013

Lettera del giornaliero





 

Ti ricorderai, quando eravamo ragazzi, i giornalieri, i lavoratori a giornata, braccianti e manovali, si alzavano all’alba e dovevano “guadagnarsi la giornata”,  la sera andavano a letto e il giorno dopo era un altro giorno che doveva essere guadagnato. La loro ci sembrava una condizione “naturale”, e circoscritta, oltre la quale c’eravamo noi e quanti altri godevano di una condizione migliore, e quelli che la cercavano, se potevano, con lo studio  o con l’emigrazione in Germania.
Poi, si è affermata l’illusione che i giornalieri fossero una categoria residuale, e invece dopo qualche tempo con nomi diversi sono diventati tantissimi e la loro condizione  è oggi sinonimo di precarietà e incertezza.
Io ho un buon lavoro, da questo punto di vista mi ritengo fortunato, eppure a differenza di quando eravamo ragazzi, adesso vedo che tutti siamo giornalieri e dobbiamo “guadagnarci la giornata”. Quand’ero giovane, immerso nel mio sogno autocentrato di stabilità e di privilegio, non tolleravo di essere contraddetto da uomini e circostanze, e se lo ero mettevo il broncio, o mi offendevo, ne facevo una questione di dignità personale, di conseguenza soffrivo e mi abituavo male. Era un mio problema ma non l’accettavo. Oggi trovo che essere contraddetto, ripreso, corretto, infastidito da contrattempi e incomprensioni è una occasione magnifica per lasciar andare catene grucce e ingessature e stare nella transitorietà del tempo. Anche se lì per lì non mi mostro entusiasta, quando porto pazienza scopro dentro il mio problema qualcosa di insostituibile e di prezioso fatto a misura per me. Qualcosa come un supplemento di spazio e di spaziosità, e anche una vicinanza agli altri.
 
 
 
 

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