Ti ricorderai, quando eravamo ragazzi, i
giornalieri, i lavoratori a giornata, braccianti e manovali, si alzavano all’alba
e dovevano “guadagnarsi la giornata”, la
sera andavano a letto e il giorno dopo era un altro giorno che doveva essere
guadagnato. La loro ci sembrava una condizione “naturale”, e circoscritta,
oltre la quale c’eravamo noi e quanti altri godevano di una condizione migliore, e quelli che la cercavano, se potevano, con lo studio o con l’emigrazione in Germania.
Poi, si è affermata l’illusione che i giornalieri fossero una categoria
residuale, e invece dopo qualche tempo con nomi diversi sono diventati
tantissimi e la loro condizione è oggi
sinonimo di precarietà e incertezza.
Io ho un buon lavoro, da
questo punto di vista mi ritengo fortunato, eppure a differenza di quando eravamo
ragazzi, adesso vedo che tutti siamo giornalieri e dobbiamo “guadagnarci la
giornata”. Quand’ero giovane, immerso nel mio sogno autocentrato di stabilità e di privilegio, non
tolleravo di essere contraddetto da uomini e circostanze, e se lo ero mettevo
il broncio, o mi offendevo, ne facevo una questione di dignità personale, di
conseguenza soffrivo e mi abituavo male. Era un mio problema ma non
l’accettavo. Oggi trovo che essere contraddetto, ripreso, corretto, infastidito
da contrattempi e incomprensioni è una occasione magnifica per
lasciar andare catene grucce e ingessature e stare nella transitorietà del tempo. Anche se lì per lì non mi mostro entusiasta,
quando porto pazienza scopro dentro il mio problema qualcosa di insostituibile
e di prezioso fatto a misura per me. Qualcosa come un supplemento di spazio e di spaziosità, e
anche una vicinanza agli altri.
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