Gianfranco Palmery, in un certo numero di giorni, prima di lasciare questo mondo, ha completato la creazione di un’isola chiamata
Amarezza, questa parola contiene il mare e un esito di brezza, o soprattutto una variante di ebbrezza, bensì amara,
e l’isola è anche Gianfranco stesso che ci si smaschera e denuda, naturalista e natura, fisio-patologo e organismo, psicologo e
psiche, letterato e opera, scenografo e scena, attore e azione, tanghero e tango, uomo vecchio e
malato e vecchiaia-malattia, giardiniere e giardino.
Sull’isola crescono molte specie di piante, erbe e fiori amari (il che ricorda il brano dello Zibaldone 4175, 4176, 4177 dall'incipit "Entrate in un giardino di piante, di erbe e di fiori", dove leggi: "non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del
patimento"): legarsi al dito le offese subite, rovistare nel risentimento, affliggersi e rinforzare i muri torti delle afflizioni, contare e ricontare le ingiustizie che
ci hanno colpito, cucire e scucire le ferite, rammemorare le umiliazioni,
ostentarne le reliquie, investire e capitalizzare la sofferenza…
C’è l’amarezza-farmaco: oh amarezza / tu curi il cuore / lo liberi del mondo, il triste morbo
che ci consuma e affanna..
Ma nel farmaco si cela una pozione
velenosa che illude e inganna: la
salvezza / non può venire da un veleno puro / distillato mortale della mente /
messa alle strette dal mondo che fa muro / e la umilia in una lunga contesa
L’amarezza ha natura seduttiva e
cangiante, mentre da vivo giochi e godi a fare il morto con il mondo, ecco che ti
ritrovi negli inferi per accorgerti che sei davvero morto: se sentirti / un tempo morto al mondo / ti piaceva, ora è il mondo /
che ti considera morto..
E persino le dolcezze pasquali, di
anni lontani, sanno di amaro mentre le si gusta, amareggiate da una amara nostalgia…
L’amarezza pur copiosa, solidifica
rapidissimamente; come lava bollente di rancore si converte in un baleno in
materiale da costruzione resistente e tossico. E l’isola dell’amarezza ambisce a
farsi continente, in sé perfetto, ma fatalmente decade e si rinchiude
nel sogno di qualcuno che la liberi da se stessa o la faccia finita.
Simultaneamente l’amarezza è grande
mare, oceano allungato tra i massicci dell’Io, e quelle isolette sparse che
sono gli io-pigmei, gli io degli altri, quali li incontriamo andando a caccia o li percepiamo,
insignificanti e queruli, nel corso dei peripli e delle processioni che ripetiamo
identici intorno a noi stessi. E ci avvediamo, prodigio di poesia e di consapevolezza, come sia tanto più facile annaspare e naufragare
amaramente in questo mare amaro quanto meno ci si lasci bagnare dalle
acque sorgive dell’accettazione e del rilassamento, nei cui riguardi si nutre
diffidenza sapida di fiele e di bile, quasi che abbandonarci e affidarci
al fluire di una corrente festiva fosse un tradimento di quella
categorica serietà e della arcigna vigilanza che occorre esercitare senza posa
nei confronti della vita.
Gianfranco invita a toccare con mano la ferita aperta e a vedere che l'amarezza è morte, mortifera, morte che respira e che avvelena con il suo fiato,
morte in vita che si incarna in colui che è amaro, senza redimere.
Vorrei
tenerla tutta
racchiusa
in me, mia cara, l’amarezza
che
mi riempie ma a volte trabocca
e
si fa stizza, ira
che
t’investe: una ventata cattiva
esce
dalla mia bocca
come
un soffio di morte rinverdita
poiché
io sono un morto che respira
a
fatica e a fatica si trascina
ancora
nella vita.
Nell’Amare-zza c’è tuttavia il contrappasso e l'impronta dell’ Amare. L’amarezza “contrappassa” un “amare”
incompleto e incompiuto, e si riflette tardiva nella sorgente dell’amore, lo
specchio di errori e incurie.
Amore
vuole lume d’intelletto
e
quell’offerta di sé
che
antepone l’oggetto
amato
a ogni altra mira:
non
può esserci errore nel soggetto
amante
poiché è amore che lo ispira -
e
invece quanti errori, quante incurie
nel
mio amore imperfetto
per
voi tutti miei amati
mie
amate, che mi fanno
sbranare
dai Rimorsi e dalle Furie
e
per mio duro danno
resteranno
per sempre imperdonati.
Gianfranco è però capace di volgere l’amarezza in
danza. Passo, doppio passo, contro passo, svolta, risvolta, gira e volta, cadenze
e battute di tango ricorrono nei suoi versi e trasmutano l’amaro e il tossico
dell’amarezza in ritmo:
Solo-solo
assediato da nemici
interni,
esterni, eterni:
non
una mano amica,
non un soccorso: l’inatteso, l’ospite
che bussa alla tua porta
di solitario sisifo e ti libera
dall’amara fatica…
E ancora:
O
vita senza vita
che
somigli a una morte senza morte,
morte
sempre patita
finché
la vita non chiude le porte,
così
se vita in morte è morte in vita
vivo
una morte che sembra infinita
Il ritmo sapiente e scorrevole delle battute e
delle controbattute non cancella
l’amarezza bensì l’incanta e ammalia per qualche istante, la confonde rovescia
e dischiude... E nell’accenno di
apertura, nel varco si apre alla generosità.
Generosi non sempre sono i versi che declamano una generosità di
maniera, ma i versi rubati all’amarezza
e all’affanno, versi che ci aiutano a capire l’amarezza e a evitarla, a non coltivarla.
Il balsamo e il farmaco di Amare-zza
resta così pur sempre Amore, dono di sé, del proprio tempo, della propria
voce, del proprio ritmo, della propria integrità, gocce benefiche di una amara piega che preparano la docilità e la mansuetudine.
(Si veda per i versi riportati in questo ricordo di Gianfranco: Amarezze - Madrigali e altre maniere amare di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, 2012)