Nel
cap.12 di Laudato sì, l’enciclica dedicata
da papa Bergoglio alla crisi e alla cura della “casa comune” leggiamo che «san Francesco, fedele
alla Scrittura, ci propone di riconoscere la natura come uno splendido libro
nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà... Per questo chiedeva che nel
convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi
crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbero ammirate
potessero elevare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza. Il
mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che
contempliamo nella letizia e nella lode.»
Il riferimento all’orto è tratto da un brano della Vita seconda
di San Francesco (CXXIV, 165: Fonti Francescane 750) di Tommaso da Celano:
“Quando i
frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l'albero, perché
possa gettare nuovi germogli.
E ordina che l'ortolano lasci incolti i confini
attorno all'orto, affinché a suo tempo il verde delle erbe e lo splendore dei
fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato.
Vuole pure che nell'orto un’aiuola sia riservata
alle erbe odorose e che producono fiori, perché richiamino a chi li osserva il
ricordo della soavità eterna.
Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi,
perché non siano calpestati, e alle api vuole che si somministri del miele e
ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell'inverno.
Chiama col nome di fratello tutti gli animali,
quantunque in ogni specie prediliga quelli mansueti.”
Come possiamo leggere questi
insegnamenti?
Sulla proibizione di recidere del
tutto l’albero. Può indicare rispetto e attenzione per la vita che ne abbraccia
le radici. Nelle radici è la condizione della vita. Talvolta ci si accontenta e
si ritiene soddisfatti da una conoscenza superficiale delle cose, delle
situazioni e delle persone, ma questa è solo ignoranza, con una battuta o uno
sguardo si ritiene di esaurire l’esperienza, laddove esperire implica una
ripetuta familiarizzazione, dalla quale soltanto può germogliare la vita.
Sull’ordine di lasciare incolti i
confini attorno all’orto e di preservare erbe e fiori. E’ una affermazione del
primato del bello dei colori dei profumi e del canto libero sull’utile. Senza
di che l’orto isterilisce nel calcolo del prodotto e tradisce la sua stessa
origine. Lasciare intenzionalmente qualcosa di incolto è importante come un invito alla misura, al non cercare comunque e
sempre l’abbondanza, anche a scapito delle condizioni, e soprattutto perché
l’incolto non va letto come abbandono ma appunto come apertura e disponibilità
a quel che viene indipendentemente dalla volontà e dalle preferenze
individuali. La terra (e l’orto, il bosco, l’ambiente della vita) sono anche “casa
comune” e non solo o principalmente proprietà privata, e terreno esclusivo
dell’io-mio.
Sul soccorso prestato ai vermi e
alle api. E’ sostegno alla vita in tutte le sue forme e esercizio di cura e di
pazienza. La pazienza è un bene indispensabile e ineguagliabile. Salvare e
sostenere la vita di altri esseri con atti ripetuti e pazienti di cura può
essere più formativo e salutare di una petizione o una donazione fatta pigiando
un bottone. Nel buddhismo mahayanico si parla di una “mente affettuosa del
genitore” che l’essere umano ha la potenzialità di portare in tutti i suoi
incontri con altri esseri viventi, situazioni, cose.
Sul nome di fratello dato agli altri
animali. E’ comprensione che nasciamo da una vita universale, ciascuno di noi è
vita, non siamo uguali ma siamo fratelli.
«Lasciare sempre una parte dell’orto non
coltivata» può significare
che quella parte non deve essere governata secondo la regola del
guadagno, del profitto, del risultato, del frutto.
Che c’è
una parte in cui non deve dominare la pianificazione e il disegno dell’ “uomo
acquisitivo”.
Che
quella parte resta aperta all’incontro di terra e cielo, pioggia e vento, sole
e luna, aperta a una vita non prefissata dall’interesse materiale. Aperta alla
contemplazione, alla meditazione intesa come pratica della bellezza e della verità.
L’orto
di Francesco è una trasparente e fertile metafora del vivente, della natura,
della società e in particolare dell’essere umano.
L’orto
che può essere visto, e sentito, come organismo vivente, e insieme di macro e
microorganismi.
L’orto,
così facilmente inquinabile,
richiama la realtà dell’essere umano e della necessaria consapevolezza di quelle
condizioni non salutari che ne pregiudicano la salute, come avidità, rabbia e
confusione.
L’orto
che va rispettato e curato con presenza e costanza animate da compassione verso
gli esseri viventi che ospita, riporta alla realtà di mente-corpo,
la cui salute richiede la cura della benevolenza e della compassione verso se
stessi.
L’orto
ci ricorda che la tecnologia può portare all’estinzione se non è bilanciata da
altri tipi di intelligenza.